“L’Italia si è dimostrata più forte della paura e ora è in grado di incidere in Europa”. Nella conferenza stampa, un Matteo Renzi compiaciuto, ma non seduto sugli allori, annuncia che il cambiamento dovrà essere ancora più veloce e al giornalista di Bloomberg che gli chiede che fine fa la rottamazione ribatte: “Adesso la rottamazione può cominciare”. Con quasi il 41% di consensi raccolti da un elettorato che ha voglia di chiudere i sette anni di vacche magre e ripartire, non cogliere l’attimo sarebbe un suicidio. Gli italiani hanno creduto in lui e gli hanno dato fiducia. L’astensionismo ha influito sul centrodestra, forse sui grillini, non sul Pd che ha guadagnato due milioni e mezzo di voti in termini assoluti rispetto alle politiche di un anno fa. Ma attenzione, non è una rendita: oggi gli elettori sono mobili, volubili persino, pronti a cambiare se si sentono delusi.



La vittoria, dunque, avrà un indubbio impatto interno. Poiché si è trattato di elezioni europee, è evidente che dovranno avere conseguenze a Bruxelles. Il Financial Times ha scritto che Matteo Renzi può fronteggiare la cancelliera Merkel come il leader del più importante partito progressista europeo e nello stesso tempo capo di un governo italiano legittimato da un ampio consenso popolare e impegnato in un cammino di riforme. Un percorso accidentato, pieno di ostacoli e di trappole.



Renzi non si ferma, non ha intenzione di farlo, però i suoi avversari sono molti e i più forti ormai stanno fuori dai partiti. C’è l’opposizione interna della Cgil. O quella esterna della Confindustria. Ci sono lobby e gruppi di pressione, clientele e corporazioni. Rottamarle non è facile, se è questo che voleva dire annunciando che il rinnovamento è ancora tutto da compiere. Dunque, il fronte domestico è fondamentale, ma Renzi tanto più avrà successo quanto più riuscirà a portare a casa risultati anche sul fronte europeo. Tocca a lui raccogliere i frutti di quel che è stato fatto in termini di risanamento del bilancio pubblico: 182 miliardi in tre anni è il conto delle stangate cominciate nel 2010.



L’anno scorso l’Italia ha fatto registrare l’avanzo primario (cioè al netto degli interessi) più elevato dell’intera Unione con oltre due punti di Pil. Il prezzo per il risanamento della finanza pubblica è stato molto salato in termini sociali ed economici perché ha prodotto pesanti effetti recessivi e una dinamica della crescita più lenta di altri paesi. Nonostante ciò, all’Italia si chiede una nuova stretta per rispettare le condizioni imposte dal Fiscal compact.

Il calcolo di quanto dovremo pagare è complicato ed è variabile, anche perché dipende da un parametro peculiare chiamato prodotto potenziale, ovvero il livello di prodotto lordo oltre il quale si crea instabilità. La differenza tra questo e quello effettivo determina lo spazio per le politiche fiscali. Più alta è la crescita potenziale, più basse le stangate per dirla in parole semplici. Secondo l’Ue, l’Italia ha un prodotto potenziale inferiore di circa 12 punti rispetto alla media. Tradotto in posti di lavoro significa che, anche quando tutte le aziende produrranno al massimo delle loro possibilità e avranno assorbito la manodopera in cassa integrazione, resterà un tasso di disoccupazione dell’11%, superiore di tre punti a quello esistente prima della recessione. È una conclusione che non convince il governo italiano il quale sostiene che il potenziale italiano è più elevato.

Economisti e statistici sono al lavoro. La questione verrà portata a Bruxelles non solo usando argomenti tecnici, ma anche, anzi fondamentalmente, in base a ragioni politiche. Si tratta di sapere, cioè, se l’Ue crede nelle capacità di ripresa dell’Italia o se considera il Paese una causa persa. Con Beppe Grillo che soffiava sul fuoco, i tentativi di invertire questo senso comune sarebbero stati vani. Con un Renzi al 40%, le cose possono e debbono cambiare. È in ballo la fiducia, ingrediente fondamentale, ma è in gioco anche una quantità di quattrini nient’affatto trascurabile, qualcosa che va tra i 5 e i 10 miliardi l’anno. Se passasse una diversa valutazione del prodotto potenziale, il costo del Fiscal compact sarebbe più leggero e il pareggio del bilancio strutturale più facile e ravvicinato. Dunque, è un dossier delicato e molto importante, che sta sul tavolo della nuova Unione europea fin dai prossimi giorni, prima del consiglio che segna il passaggio di testimone.

Nel momento in cui Renzi prenderà in mano le redini dell’Ue sarà chiamato a dimostrare non solo ai suoi elettori italiani, ma a tutti gli europei che è possibile una ripartenza anche nel Vecchio continente. L’ipotesi più volte avanzata di un fronte latino per lo sviluppo non è mai stata in piedi, tanto meno ora che in Francia i partiti della République sono crollati sotto l’offensiva lepenista. Roma dovrà farsi portatrice di una proposta che riguardi l’intera Unione, e qui il terreno ideale è la politica estera e di sicurezza di fronte alla crisi con la Russia.

Per l’area euro, invece, deve lanciare la palla in avanti, affrontando di petto il coordinamento delle politiche fiscali, come proposto dagli Stati Uniti in ogni vertice internazionale: i paesi che hanno i conti a posto e un attivo nella bilancia con l’estero debbono seguire una politica espansiva e agganciare chi ha ancora bisogno di completare il risanamento finanziario. La Germania lo ha sempre rifiutato, vuole fare la guida morale impartendo lezioni che non le costano nulla, non la guida materiale impiegando diversamente le proprie risorse. Ma la Merkel che ieri ha lanciato l’allarme populismo deve capire che l’antidoto è nelle sue mani. Le prime gocce potrà versarle subito, fin dalle trattative per le poltrone che contano, scegliendo persone autorevoli e impegnate a cambiare marcia. Quanto a Renzi, è ora di rottamazione anche a Bruxelles, glielo chiedono gli elettori con 11 milioni e 100 mila voti.