Concludevo il mio precedente intervento su queste pagine dicendo: “Sorgeranno enormi problemi nella riproduzione stessa della società e che il dibattito sul debito pubblico dominato da versioni monetaristiche non consente di volgere positivamente verso politiche di pieno impiego. Solo il ritorno a una politica di pieno impiego sostenuta da investimenti pubblici e da misure atte a incoraggiare l’investimento di capitali privati potrà invertire la rotta, ma le sofferenze sociali saranno enormi e una rivoluzione culturale è necessaria per rovesciare il nichilismo e l’ingiustizia dilagante”.



Il primo passo di questa rivoluzione culturale è quello di rovesciare l’apodittico discorso prevalente sul debito pubblico. Ancora una volta Michal Kalecki può aiutarci, sempre facendo riferimento all’articolo “Aspetti politici del pieno impiego”, una stella polare per orientarci dopo anni di smarrimento. Ecco cosa scrisse: «Consideriamo in primo luogo l’avversione dei “capitani d’industria” all’intervento pubblico nelle questioni dell’occupazione. Ogni allargamento dell’ambito dell’attività economica dello Stato è visto con sospetto dai capitalisti; ma l’accrescimento dell’occupazione tramite le spese statali ha un aspetto particolare che rende la loro opposizione particolarmente intensa. Nel sistema del laissez faire il livello dell’occupazione dipende in larga misura dalla cosiddetta atmosfera di fiducia. Quando questa si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta a un declino della produzione e dell’occupazione (direttamente, o indirettamente, tramite l’effetto di una riduzione dei redditi sul consumo e sugli investimenti). Questo assicura ai capitalisti un controllo automatico della politica governativa. Il governo deve evitare tutto quello che può turbare l’“atmosfera di fiducia”, in quanto ciò può produrre una crisi economica. Ma una volta che il governo abbia imparato ad accrescere artificialmente l’occupazione tramite le proprie spese, allora tale “apparato di controllo” perde la sua efficacia. Anche per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l’intervento statale, deve venir considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della “finanza sana” si fonda sulla dipendenza del livello dell’occupazione dalla “atmosfera di fiducia”.



L’avversione dei “capitani d’industria” alla politica di espansione della spesa pubblica diventa ancor più acuta allorché si cominciano a considerare i fini per cui tale spese possono venir destinate, e cioè gli investimenti pubblici e la sovvenzione del consumo di massa. Il fine cui mira l’intervento statale richiede che gli investimenti pubblici si limitino agli oggetti che non competono con l’apparato produttivo del capitale privato (ad esempio, ospedali, scuole, strade, ecc.), in caso contrario infatti l’accrescimento degli investimenti pubblici potrebbe aver un effetto negativo sul rendimento degli investimenti privati, e la caduta di questi potrebbe compensare l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione. Tale concezione è per i capitalisti interamente di loro gusto, ma l’ambito degli investimenti pubblici di tale tipo è piuttosto ristretto e vi può essere la possibilità che il governo, agendo secondo la logica di tale politica, possa spingersi a nazionalizzare i trasporti o i servizi pubblici, per poter allargare l’ambito del suo intervento [].



[1] Occorre qui osservare che gli investimenti nei rami nazionalizzati possono contribuire alla risoluzione del problema della disoccupazione solo nel caso in cui vengano eseguiti con criteri diversi da quelli con cui operano le imprese private. Le imprese pubbliche devono eventualmente accontentarsi di un tasso inferiore di profitto e programmare i loro investimenti in maniera tale da attenuare le crisi economiche.

Ci si può quindi attendere che i “capitani d’industria” e i loro esperti abbiano una disposizione più favorevole nei confronti del sovvenzionamento del consumo di massa (tramite gli assegni familiari, i sussidi volti alla riduzione del prezzo degli articoli di prima necessità, ecc.) piuttosto che nei confronti degli investimenti pubblici: nel sovvenzionare il consumo lo Stato non interferirebbe infatti in alcuna misura nella sfera dell’“attività imprenditoriale”. In realtà, tuttavia, la questione si presenta altrimenti: la sovvenzione dei consumi di massa incontra un’avversione ancora più aspra di tali esperti che nei confronti degli investimenti pubblici. Ci imbattiamo qui infatti in un principio “morale” della più grande importanza: le basi dell’etica capitalistica richiedono che “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (a meno che tu non viva dei redditi del capitale)».

La questione che si pone oggi non solo in Italia e in Europa, ma in tutto il mondo, è la seguente: i redditi da capitale intesi come redditi della circolazione monetaria ad altissimo rischio sono divenuti preponderanti per circa trent’anni e dominanti rispetto agli stessi profitti capitalistici. Il capitalismo si è per così dire patrimonializzato, ma non con l’ereditarietà dei capitali, quanto, invece, con lo spostamento di ingenti masse di ricchezza dal profitto alla rendita finanziaria con le conseguenti bolle speculative ad altissimo rischio che ne sono derivate.

Ciò che impressiona, pensando a Kalecki, è che l’indignazione dei capitalisti verso l’intervento pubblico si è miracolosamente attenuata allorché si è trattato di trasformare il debito privato delle grandi banche universali capitalistiche dispensatrici di strumenti finanziari di distruzione di massa, in debito sovrano, ossia debito che gli stati tutti si sono accollati o collateralizzando i debiti (prendendo tempo dinanzi alla crisi) o addirittura nazionalizzando le banche per evitare il panico.

Qualsiasi polemica contro il debito pubblico è scomparsa nel mondo: Usa e Giappone ne sono esempi preclari. Non si parla più di debito pubblico, ma di mancata crescita, di disoccupazione, di bassa produttività, ecc. Schiere di economisti, abbiano o no il lauro del Nobel, sono impegnati a sottolineare che il pericolo è la deflazione e che bisogna far qualsiasi cosa per ostacolarla. Colpisce, di questo discorso economico-politico, la narrazione ideologica che tende a unire le generazioni. Se viaggiate negli Usa, in Giappone, in Asia e anche in Uk, non sentirete mai addossare agli anziani colpe che oggi ricadrebbero sui giovani.

Se si alza la testa fuori dal proprio particolare questo fenomeno ideologico e simbolico insieme va fortemente sottolineato. Tutt’affatto il discorso in Europa, e soprattutto in Italia. La retorica europeistica chiama bassa inflazione quello che è deflazione e ipostatizza la variabile indipendente del pareggio di bilancio come misura essenziale per garantire la crescita economica. Chiunque conosca la storia del pensiero economico – siamo sempre più in pochi – sa bene che il nocciolo duro di questa ipostatizzazione sta nella scuola monetarista francese degli anni Trenta con Rueff alla sua testa, il grande sostenitore del ritorno all’oro.

Il franco forte e la potenza militare dovevano essere gli assi portanti di una Francia che doveva dominare l’Europa e financo sfidare gli Stati Uniti. Grande campione di questa politica, come è noto, fu il generale De Gaulle con la sua force de frappe. L’astuzia hegeliana della storia ha voluto che questo paradigma, che non volle ascoltare nessuno, e che i primi passi della politica europea gettarono nel dimenticatoio, con valanghe di interventi pubblici e di debiti pubblici, a partire da una politica agricola che aveva un tono quasi sovietico, costituirono l‘assetto dell’Europa e di tutti gli stati della medesima sino all’unificazione tedesca.

Fu allora che la fuga degli inglesi nella loro isola, l’ignoranza economica degli italiani, la magniloquenza imperiale francese, fecero uscire dalle feluche quell’idea à là Rueff che nobilitò il sogno tedesco non solo di unificarsi, ma di unificarsi unificando attorno a sé l’Europa, con un marco che era stato, invece del franco, tanto forte da potersi travestire da euro continuando a generare alla Germania, che aveva adesso ottanta milioni di abitanti, un surplus commerciale da far tremare le vene a tutti gli altri paesi europei. Il sogno francese diventava l’incubo che i tedeschi imposero e impongono a tutta l’Europa.

Surplus commerciale, moneta forte, aumento della produttività sempre più elevata dell’aumento salariale, riduzione della spesa pubblica: ecco la canzone tedesca che ora tutti gli europei dovevano e devono cantare. E devono anche essere felici.

 

(1- continua)