Meno di cento ore dopo l’esito del voto europeo, meno di quaranta ore dopo il primo consiglio dei leader Ue sul rinnovo delle alte cariche dell’Unione, la Germania “in persona” cala una carta pesante: non un banale “asso-pigliatutto” (non è stagione), ma un abile “carico di briscola” per sparigliare un tavolo incerto e paralizzato. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble propone che la Commissione Ue venga “riorganizzata”, ma senza vaghezze dettate dalla semplice urgenza di guadagnar tempo.



L’ipotesi di lavoro è circostanziata: il governo della Ue-28 – dice il ministro tedesco più potente e rappresentativo dopo il cancelliere Angela Merkel – va ristrutturato con l’introduzione di una gerarchia. Non tutti i commissari devono essere per forza uguali come oggi, allorché alle spalle del presidente José Manuel Barroso sono schierati 8 vicepresidenti (fra cui l’italiano Antonio Tajani). La qualifica è tuttavia puramente nominale: i commissari “vice” rimangono di fatto competenti solo per il loro portafoglio, non diversamente dagli altri 18. La Germania invece – per bocca di Schauble pensa ad alcuni vicepresidenti “esecutivi” e “delegati”. Presumibilmente meno di otto. Immaginiamo siano la metà, formalmente a rotazione, ma prevedibilmente con un meccanismo simile a quello del consiglio di sicurezza Onu. In questo nuovo “direttorio” Ue alcuni Paesi saranno “più uguali” degli altri: siano/si chiamino “membri “permanenti” come alle Nazioni Unite, oppure no. Proviamo a mettere un po’ più le mani in pasta?



La Commissione potrebbe essere guidata da un presidente “terzo” (il candidato Popolare Jean Claude Juncker, già “pre-incaricato” dal Parlamento neoleletto a Strasburgo; un lussemburghese, espresso da uno dei sei Paesi fondatori del 1957). Anche il “presidente dell’Unione” potrebbe continuare ad essere un clone dell’uscente (il belga Hermann van Rompuy, lui pure con il blasone del fondatore). Nella nuova linea “uno-bis” potrebbero invece alloggiare quattro supercommissari: un italiano, un francese, un tedesco (tre “fondatori”) e un britannico (la quarta “potenza” europea, entrata nel perimetro nel 1973). A loro – sempre intuendo le traiettorie del “ballon d’essai” tedesco – andrebbero in assegnazione diretta altrettanti portafogli-chiave: diciamo Politica estera, Affari economici (finanze pubbliche, fiscal compact), Antitrust (fusioni e acquisizioni bancarie e industriali), Mercato interno (liberalizzazioni e regolazione dei settori strategici). Ai quattro vicepresidenti effettivi – questa l’altra novità implicita nella mossa tedesca – risponderebbero team di  commissari “minori”, anche sei poi in realtà tali non sono: basti pensare al portafoglio dell’Agricoltura, il ministero-pioniere della Cee, che tuttora assorbe più di metà del budget annuale. Ma non possono essere certo dimenticati l’Industria (quello ultimamente gestito dal commissario italiano), i Trasporti, l’Energia, le Telecomunicazioni.



La logica italica del “Cencelli” – adottata per l’occasione da Berlino − farà inesorabilmente arricciare molti nasi a Bruxelles, forse meno a Strasburgo: per la prima volta chiamata a esprimersi in chiave di equilibri politico-parlamentari su nomine finora condizionate dal mix fra geopolitica e anzianità di appartenenza all’Unione.

Certo, la prospettiva è quella del “cambiamento dei trattati di Maastricht”, ha puntualizzato Schauble, mettendo un po’ le mani avanti su tempi e modi di una Ue a due velocità su cui – fino a domenica – pochi avrebbero scommesso (era più gettonata un’Eurozona a due velocità, usando come discrimine la moneta unica). Ma se i tempi fossero quelli dei grandi trattati europei (come quello di Westfalia del 1648, preceduto dalla Guerra dei Trent’Anni) il governo tedesco avrebbe forse usato più flemma: ad esempio quella utilizzata per sviluppare il salvataggio della Grecia (per mesi marchiato come “too little, too late”: troppo poco e troppo tardi). Nel maggio 2014, la Germania invece accelera, anticipa soluzioni, attenua il rigore: almeno sul piano istituzionale. E un po’ di merito ce l’ha anche la piccola Italia dello “junior premier” Matteo Renzi.