Parafrasando il titolo di un film di Sergio Leone che ebbe grande successo in Italia e all’estero circa mezzo secolo fa, si può dire che le “linee guida” in materia di riforma della Pubblica amministrazione presentate dal Presidente del Consiglio e dal Ministro della Funzione Pubblica hanno del buono, del vecchio e del cattivo. Naturalmente, è difficile entrare nel merito sino a quando (presumibilmente a metà giugno) non si conosceranno gli strumenti normativi specifici, ossia i provvedimenti.
In primo luogo, è arduo comprendere perché nel presentare le misure il “grande comunicatore” non abbia messo l’accento sulle innovazioni, alcune piccole ma utili, e invece ha assunto il cipiglio del “vendicatore” di tutti gli italiani per mostrare il vecchio come se si trattasse di nuovo. La possibilità di licenziare dirigenti difficili da collocare esiste da anni e così pure il modo di premiare i meritevoli con congrui premi di risultato e di stangare i “fannulloni” sia nel portafoglio, sia con trasferimenti a incarichi da loro meno graditi.
Si è avuta l’impressione (auguriamoci sbagliata) che né il Presidente del Consiglio, né il Ministro della Funzione Pubblica sappiano quali sono le regole di base della Pubblica amministrazione, specialmente dopo le leggi Bassanini e Brunetta. D’altronde era possibile fare quella che è stata chiamata “la rivoluzione” anche prima che Bassanini e Brunetta mettessero mano all’ordinamento. Nel 1982, appena approdato in Italia dopo tre lustri negli Usa, nella veste di dirigente generale feci licenziare dal pubblico impiego un dipendente del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica per assenteismo e rendimento scarso (ossia nullo). Feci la stessa cosa nel 1990 al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. Non fu facile né nel primo, né del secondo caso (poiché dovetti superare l’opposizione del Gabinetto del Ministro in carica), ma ne trasse beneficio, in termini di morale, tutto l’ufficio. Nel primo caso, non ci fu neanche un ricorso al Tar. Nel secondo ci fu: con la conseguenza di un’azione della Procura della Repubblica nei confronti dell’(ex) dipendente e dei medici della Asl che avevano emesso certificati fantasiosi, oltre che falsi.
Per graduare la premialità, basta una circolare che obblighi i dirigenti ad amministrare il premio di risultato con una curva: non più del 10% del personale può essere valutato “ottimo” e non meno del 10% “pessimo”, il 50% “medio” e il restante 30% in due categorie tra “pessimo” e “medio” e tra “medio” e “ottimo”. Mi auguro che da ora a metà giugno questo provvedimento semplice ma efficace venga adottato. E soprattutto che Premier e Ministro non mostrino alcun cipiglio nei confronti dei loro collaboratori istituzionali. Da anni i dipendenti pubblici hanno stipendi bloccati e vengono additati come la determinante di tutti i malanni del Paese. Potrebbero essere loro a fare una “rivoluzione silenziosa” e a ricordare a Renzi e altri Ministri che l’inquilino di Palazzo Chigi (e i suoi collaboratori) sono “precari” e possono essere sfrattati da un’amministrazione che decide di non essere “collaborazionista”.
Prima di metter mano a una macchina tanto complessa come la Pubblica amministrazione occorre chiedersi perché le regole di base delle riforme Bassanini e Brunetta non sono state applicate. Le ragioni sono storico-sociologiche. Le illustrò a tutto tondo il Premio Nobel Douglass C. North nel 1990 nel libro Istituzioni, Cambiamento Istituzionale ed Evoluzione dell’Economia, 150 pagine che il Presidente del Consiglio e il Ministro della Funzione Pubblica dovrebbero studiare con cura. Oppure, se desiderano qualcosa di più fresco, il saggio di Enrico Spolaore e Romain Wacziarg How Deep are the Roots of Economic Development? nel fascicolo di giugno 2013 del Journal of Economic Literature. Da questi e altri lavori si conclude che se non si agisce con astuzia le vecchie regole si irrigidiscono e impediscono l’arrivo delle nuove.
Tuttavia, all’inizio di questa nota, si è detto che c’è del buono nel programma delineato. Ad esempio, il dimezzamento dei congedi sindacali (una forma impropria di finanziamento di associazioni private), l’abolizione della Covip (che ha fatto principalmente danni con la proliferazione di 700 fondi pensioni lillipuziani che hanno reso futile la previdenza integrativa), la concentrazione delle scuole della Pubblica amministrazione in un unico istituto (dove sarebbe bene riprendere la prassi, vigente sino al 1998, di reclutare i professori dietro pubblico concorso e non secondo gli umori o le clientele del “potente” di turno), l’accorpamento di uffici sparsi sul territorio, la riduzione di numerosi adempimenti diventati inutili. E via discorrendo.
E su questo buono che occorre operare. Per inciso, che fine fa l’Aran dato che da anni non si fanno più contratti collettivi nella Pa?