Il tormentone Alitalia non finisce mai, ma, quel che più conta, rischia di concludersi, per ora, con un nuovo salasso ai danni dei cittadini. Facendo una carrellata sul recente passato, si possono mettere insieme i costi delle indecisioni e delle decisioni sbagliate dei vari Governi. Già alla fine del 1997, poco prima dell’apertura di Malpensa, lo Stato intervenne con una ricapitalizzazione di
2.750 miliardi di lire. Dopo aver aperto Malpensa, costata 3 miliardi di euro, anche per rilanciare l’Alitalia, che avrebbe così dovuto e potuto intercettare il ricco traffico del nord-Italia, ci fu, invece, subito il bisogno di una nuova iniezione di risorse pubbliche di 893 milioni di euro nel 2002.
L’apertura di Malpensa doveva coincidere con la privatizzazione di Alitalia e la fusione con il grande vettore olandese Klm, sfumata all’ultimo minuto per le resistenze dei boiardi di Stato, che non volevano rinunciare all’uso politico clientelare del vettore pubblico. La struttura organizzativa e gestionale, rimasta quella vecchia e inefficiente, portò ad aver bisogno, già nel 2004, di altri 400 milioni, di un miliardo nel 2005, e di 300 milioni nel 2008. Mentre le altre compagnie aeree europee chiudevano traumaticamente e subito si riprendevano sotto nuove vesti (Sabena, Swissair) o venivano privatizzate, come British Airways, o ristrutturate, come Air France e Lufthansa, in Italia tutto rimaneva immutato. Nonostante tutte le ricapitalizzazioni pubbliche dell’ultimo decennio, prima della privatizzazione avvenuta nel 2008, l’Alitalia continuava la sua incerta navigazione. Fino all’ultimo “aiuto di Stato” permesso dalla Unione europea.
Le cose non sono cambiate anche dopo la pasticciata privatizzazione costata almeno altri 3 miliardi allo Stato. La nascita della bad company dove sono confluiti gli enormi debiti pregressi a carico dello Stato non è servita a risolvere il problema. E ora siamo al punto di partenza. Infatti in questi anni dalla privatizzazione il Governo non ha mai fatto mancare costosi aiuti ai “capitani coraggiosi”, Colaninno in testa, che hanno rilevato Alitalia. Non è mancata la copertura dei costi della cassa integrazione dorata per 4 mila addetti, che percepiscono oltre i quadruplo degli altri lavoratori italiani, la concessione del monopolio sulle principali rotte interne e lo slittamento dei pagamenti del kerosene all’azienda pubblica Eni.
Ora la storia si ripete. Si profila una nuova bad company, dove verranno infilati i rischi finanziari legati ai contenziosi economici del passato, la zavorra del dubito bancario e 3.000 addetti in esubero (costo di 200 milioni l’anno di Cig). Oltre a queste condizioni dettate da un vettore straniero, Etihad pretende di rivedere l’assetto della rete ferroviaria di Alta Velocità su Fiumicino, la liberalizzazione degli slots di Linate, solo a favore degli hub da lei serviti, il nuovo sistema di regole per i vettori low cost in Italia e il depotenziamento di Malpensa, che vanificherebbe ulteriormente i grandi investimenti pubblici effettuati per lo scalo della brughiera.
Con questa soluzione le scelte strategiche del trasporto aereo verrebbero fatte fuori dal nostro Paese, ma i costi rimarrebbero saldamente in capo allo Stato italiano. La paura di affrontare il nodo occupazionale sta inducendo il Governo a un’altra soluzione pasticciata, ma soprattutto costosa e iniqua. La corporazione di piloti, assistenti di volo e menage fallimentari ha imposto prima a Letta, e ora a Renzi, di accettare le condizioni di Etihad.