Il Consiglio direttivo della Bce “è unanime nel suo impegno a ricorrere anche a strumenti non convenzionali nel quadro del proprio mandato qualora si rendesse ancora necessario affrontare rischi connessi con un periodo di bassa inflazione eccessivamente prolungato”. Non lascia alcun dubbio il Bollettino della Banca centrale di Francoforte: poco conta che il Pil dell’Eurozona segnali una modesta ripresa, comunque “inferiore alle attese”; o che, finalmente, i “mercati del lavoro confermino una tendenza alla crescita”. Non è assolutamente il momento per compiacersi dei risultati raggiunti, vedi “i continui miglioramenti delle condizioni di finanziamento che si trasmettono all’economia reale” o “i progressi compiuti sul fronte del risanamento dei conti pubblici e delle riforme strutturali”. No, il cammino per neutralizzare la caduta dei prezzi e la minaccia alla crescita è appena iniziato. Le misure prese il 5 giugno a Francoforte, per quanto robuste, sono solo il punto d’avvio, insomma, non l’epilogo della sfida.



Quali le prossime tappe? La Banca centrale europea, come annunciato alla fine del meeting, presterà in autunno alle banche circa 400 miliardi per 4 anni al tasso dello 0,25%, da utilizzare come si vuole, e quindi anche per comprare asset finanziari a tassi fisso. Questa somma potrà aumentare considerevolmente per gli istituti che nel 2015 dimostrano di aver aumentato i prestiti alle aziende rispetto ai 12 mesi che precedono il 30 aprile 2014. Al contrario le banche che nel 2016 non potranno dimostrare di aver usato le somme per finanziare le aziende, dovranno restituirle (ma dispongono comunque di due anni per impiegarle come credono). Insomma, l’iniezione di capitale è davvero robusta e si farà sentire sui bilanci delle banche, destinati a trarre grande profitto dal denaro a costo zero, una novità in pratica inedita per l’eurozona che in questi anni ha dovuto sopportare condizioni di stretta effettiva del credito nell’ambito delle pulizie precedenti gli stress test previsti dall’Unione bancaria.



Ora, ad operazione avviata, la musica cambia, come emerge con evidenza dalle dichiarazioni di Mario Draghi al termine del direttorio. A una domanda sulle motivazioni che stanno dietro la fine della sterilizzazione delle iniezioni di liquidità del Securities markets programme (195 miliardi a fronte degli acquisti di titoli dei paesi dell’eurozona a rischio) Draghi ha risposto con grande candore che l’inflazione è troppo bassa. Al netto dei tecnicismi, ha commentato Alessandro Fugnoli, è “come chiedere a un fedele perché ha ucciso la vacca sacra e sentirsi rispondere che aveva fame”. Insomma, una coltellata all’ideologia tedesca.



Con queste premesse il Quantitative easing diventa possibile e perfino probabile, si tratterà solo di valutarne politicamente i tempi e i modi anche in relazione all’andamento del dollaro. Molte delle decisioni dei prossimi mesi, infatti, dipenderanno dalle mosse della Federal Reserve che finora ha fatto il possibile (e qualcosa di più) per mantenersi espansiva e, se possibile, diventarlo ancora di più. Anche la sconfitta della colomba repubblicana Cantor alle primarie a opera di un falco del Tea Party potrebbe convincere la Fed a mantenere la politica espansiva nel timore che la destra repubblicana rimetta in discussione il compromesso sul budget e altre misure di fiscal policy del presidente Obama.

Ma gli ultimi dati macro statunitensi stanno fornendo sempre maggiori indizi di un’accelerazione “estiva” dell’economia americana. Lo small business optimism index di aprile ha segnato i massimi dal 2007 e il 10% degli aderenti pensa di assumere nei prossimi mesi. Bisogna tenere a mente che è la piccola e media impresa Usa il principale serbatoio di nuovi posti di lavoro. Non a caso le posizioni aperte rilevate dal Bls (Bureau of labour statistics) sono balzate a 4.45 milioni ad aprile (sopra i 4 milioni per il terzo mese a fila). Non è un dato da trascurare: Jon Hilsenrath, il commentatore più influente di The Wall Street Journal ha fatto notare che Janet Yellen a marzo aveva indicato che uno dei fattori che l’avrebbero convinta che il mercato del lavoro sta migliorando sarebbe stato un aumento delle persone che lasciano volontariamente il lavoro, un sintomo che le aziende competono tra di loro per assumere e che i lavoratori si sentono più sicuri di trovare un altro posto. Il report Bls di ieri ha indicato che ad aprile 2,5 milioni di americani hanno lasciato volontariamente il lavoro, un 11% in più rispetto a 12 mesi fa.

Di qui l’ipotesi che i tassi americani possano risalire prima del previsto: già da marzo 2015 e non in un autunno, ipotizza il governatore della Fed James Bullard, di solito schierato con le “colombe”. Insomma, l’Italia può godere di nove mesi di condizioni finanziarie ideali, prima che la ripresa dei rendimenti Usa si trasmetta sull’Europa e spinga gli investitori a rientrare sul mercato Usa alla ricerca di migliori rendimenti. Nove mesi all’insegna dell’afflusso dei capitali sull’Europa mediterranea, mai così copiosi, e di record quasi incredibili sul fronte del debito pubblico, tipo la discesa allo 0,89% dei rendimenti del Btp a tre anni. Ma, soprattutto, nove mesi che offrono l’opportunità quasi irripetibile di aggredire il problema dei problemi, il debito pubblico che in assenza di correzioni di rotta minaccia di salire al 134,5%, ovvero la soglia di non ritorno.

Non basta, per invertire la rotta, ottenere nuovi avanzi primari quasi irripetibili. Nemmeno è sufficiente la tabella di marcia “ambiziosa” (forse irrealistica) delle privatizzazioni che secondo il ministro Pier Carlo Padoan devono procedere al ritmo dello 0,7% del Pil per almeno quattro anni. Ovvero 19 miliardi in più di quanto già previsto dal predecessore Fabrizio Saccomanni. È necessario, oltre a tutto questo, riavviare il motore della crescita, cosa che può succedere solo se viene tagliata la spesa pubblica a vantaggio di imprese e lavoro. Avanti con coraggio, nove mesi passano in fretta.