Europa, un continente in piena ripresa. Avrebbe dovuto essere questa una delle tracce dei temi dell’esame di maturità cominciato ieri, visto il vigore con cui le economie periferiche dell’eurozona stanno scacciando via la crisi e ripartendo verso destini di prosperità. Prendiamo la Spagna, ad esempio, il cui decennale ha un rendimento che flirta con quello del pari durata statunitense: bene, se si continuerà però a flirtare, come facciamo da mesi, anche con la deflazione, paesi altamente indebitati (e destinati a esserlo sempre di più) come la penisola iberica potrebbero essere tentati di fare default.
E sapete perché? Per le regole europee, ovvero quella follia che impone di ridurre il debito eccedente il 60% di ratio debito/Pil di una quota pari a 1/20 l’anno, pena una multa pari allo 0,2% del Pil, le quali offrono alla Spagna cinque opzioni, una delle quali è la ristrutturazione del debito. Il grafico a fondo pagina, ci mostra la traiettoria ipotetica del debito pubblico spagnolo in base a diversi scenari, non solo quello europeo di obbligatoria riduzione del debito in eccedenza, ma anche quelli con inflazione più alta del livello attuale, rispettivamente al 2% e 3%: bene, la traiettoria è comunque da schianto. Ma veniamo alle cinque opzioni percorribili da Madrid per ridurre il debito.
La prima è la più economicamente intuitiva, ovvero far crescere il Pil più velocemente del debito pubblico, peccato che stando alle previsione del Fondo monetario internazionale – le quali vengono poi sempre riviste al ribasso – fino al 2020 la Spagna avrà un tasso di crescita inferiore all’1,3%. Impossibile, con queste cifre, stabilizzare la ratio del debito. Seconda opzione, aggiustamenti fiscali fino a raggiungere un avanzo primario. Peccato che con un deficit primario del 4%, la Spagna avrebbe bisogno di ulteriore consolidamento: ridurre il deficit troppo in fretta, disintegrerebbe anche quei minuscoli germi di ripresa presenti in alcuni settori anticiclici.
Terza opzione, la cosiddetta “repressione finanziaria”, con cap sui tassi di interesse, prestiti diretti al governo e controllo dei flussi di capitale. Insomma, una Cipro in grande stile: quasi impossibile, il rischio reputazionale delle Spagna sui mercati sarebbe enorme, così come le conseguenze legali da parte di chi detiene debito iberico. Quarta opzione, basarsi sull’inflazione, visto che il debito pubblico iberico è fissato in termini nominali, a parte i 5 miliardi emessi il mese scorso e indicizzati all’inflazione. Un’inflazione più alta, quindi, abbasserebbe il valore reale di quanto va ripagato su quel debito, ma stando allo stock attuale, anche un’inflazione al 3% ridurrebbe il debito pubblico solo dell’1% rispetto al Pil da qui al 2025. Quinta opzione, ristrutturazione o pieno default sul debito, ovvero seguire quasi in pieno il precedente greco e cercare di mettersi alle spalle anni di austerity e ricette sbagliate, pur pagando un costo.
Anche perché, per quanto la fanfara europeista ci venda la balla della ripresa, in Spagna il governo sta studiando un piano per inserire prostituzione, traffico di droga e gioco d’azzardo nel calcolo del Pil, come confermato pochi giorni fa da El Pais. Non è cosa da poco, perché stando a calcoli fatti dall’istituto di statistica Ine, l’inserimento di quelle voci garantirebbe un aumento del Prodotto interno lordo tra il 2,7% e il 4,5%. E il piano è in fase parecchio avanzata, perché l’Ine sta compiendo già oggi sondaggi presso le sedi dell’Heteria, l’organizzazione che tutela le lavoratrici dell’industria sessuale, per cercare di stimare gli introiti garantiti dall’attività nel Paese.
Ormai è un prassi consolidata: l’Italia potrebbe ricorrere a una misura simile, mentre la scorsa settimana in Portogallo è stato pubblicato uno studio in base al quale le attività illegali pesano per 700 milioni del Pil, lo 0,4% del totale, mentre nel Regno Unito prostituzione e traffico di droga pesano per circa 12,3 miliardi di euro, lo 0,6% del Pil. D’altronde, la stessa Europa il mese scorso ha detto che una parte di attività illegali dovranno essere incluso nel calcolo del Pil già prima del 2016, quindi gli Stati si adeguano.
E vogliamo poi parlare della Grecia? Ieri sono usciti i risultati di uno studio condotto dal Labor Institute of the Confederation of Labor Union (Gsee) riguardo i trattamenti e le condizioni salariali dei lavoratori ellenici: il concetto di servo della gleba mi sembra il più appropriato per descriverli. I dipendenti greci, infatti, ricevono il salario con ritardi che vanno dai 3 ai 12 mesi, inoltre in gran parte ricevono solo un terzo dello stipendio, il resto viene pagato in servizi come dormire gratis in hotel, cibo gratis o coupon per acquisti nei supermarket. E stiamo parlando non di schiavi da call center ma di lavoratori con impiego a tempo pieno per otto ore al giorno e 25 giorni lavorativi al mese. Sparite sia la tredicesima che la quattordicesima, il cui corrispettivo è anche in questo caso l’ottenimento di coupon: peccato che all’atto di consegna degli stessi, i datori di lavoro facciano firmare ai dipendenti un foglio in cui questi dichiarano di aver ricevuto il pagamento in pieno dei due bonus. I lavoratori sotto i 25 assunti con contratti part-time guadagnano 180 euro al mese per quattro ore di lavoro al giorno, 7,2 euro a giornata, 1,72 euro all’ora: le miniere d’oro del Sudafrica probabilmente si adegueranno al ribasso ora. E pensate che dopo la riforma del mercato del lavoro imposta nel 2011 dalla Troika, questi stessi lavoratori lavoravano per 3 euro l’ora: eh ma in Grecia ora c’è la ripresa, si sta meglio, il Paese è salvo. Nemmeno Charles Dickens, probabilmente, sarebbe arrivato a tanto.
E l’Italia? Nonostante le note in chiaroscuro del Fondo monetario internazionale nel suo report dopo la missione nel Bel Paese, sono soltanto quelli che seguono i numeri che davvero contano, poiché rappresentano il freno assoluto alla crescita dovuto alla mancanza di credito (se ne è accorto anche Matteo Renzi, alla buon’ora). Udite udite, nuovo record ad aprile per le sofferenze e meno credito per le banche italiane. È quanto emerso dal rapporto mensile dell’Associazione bancaria italiana che ha rivelato come, a seguito del perdurare della crisi, le sofferenze delle banche italiane abbiano raggiunto quota 166,4 miliardi di euro, 1,8 miliardi in più rispetto al precedente mese di marzo e circa 33,2 miliardi in più rispetto a fine aprile 2013 (+25% annuo). Tuttavia, la dinamica è risultata in decelerazione rispetto al +27,2% di inizio anno, se questo vi fa stare un po’ meglio. In rapporto agli impieghi, le sofferenze lorde sono state pari all’8,8%, un valore decisamente alto se confrontato con il 2,8% del 2007 e il più elevato da ottobre 1998. Nel dettaglio, il valore ha raggiunto ad aprile il 14,9% per i piccoli operatori economici, il 14,2% per le imprese e il 6,5% per le famiglie.
Anche le sofferenze nette hanno registrato un aumento, passando dai 75,7 miliardi di marzo a 76,7 miliardi e il rapporto sofferenze nette su impieghi totali è salito al 4,23% dal 4,12% di marzo (e dallo 0,86% pre-crisi). Le sofferenze nette su capitale e riserve, invece, si sono attestate al 18,93%, tasso che si confronta con il 17,99% di marzo. Mentre le sofferenze continuano ad aumentare, a maggio la raccolta bancaria è calata, su base annuale, dello 0,72% a 1.724,5 miliardi (-12,5 miliardi), mentre su base mensile ha registrato un aumento assoluto pari a 2,5 miliardi. Inoltre, sempre lo scorso mese, l’Abi ha rilevato che il controvalore delle obbligazioni detenute dagli italiani in portafoglio sia ulteriormente calato del 7,24% annuo a 492 miliardi. «Un calo che corrisponde a 38,4 miliardi di euro e che si riflette inevitabilmente in una contrazione dei prestiti a breve e a lungo termine», ha sottolineato l’ente presieduto da Antonio Patuelli.
I prestiti a breve termine sono scesi del 5,42% a 359 miliardi, mentre quelli a lungo termine dello 0,98% a 1.065 miliardi. Il totale degli impieghi, che include sia quelli al settore privato sia alla Pubblica amministrazione, sono diminuiti del 2,94% a 1.837,4 miliardi, mentre gli impieghi bancari sono scesi, sempre a maggio, del 2,14% tendenziale a 1.424 miliardi. Con numeri così, l’economia non ripartirà mai. Aspettiamo le aste di Mario Draghi, tanto per capire quanto le banche ci prenderanno in giro anche questa volta, tenendo il malloppo e comprando debito pubblico. Ma lo spread è basso e sono iniziati i mondiali, festeggiamo.