Si cominciano a intravedere barlumi di una lenta e fragile uscita dalla crisi. Il rapporto Istat presentato il 28 maggio ha confermato le previsioni di Ocse e Commissione europea pubblicate nelle giornate precedenti. I dati e le previsioni confermano anche però che non si tornerà ai tassi di crescita annuali del 2,5% che hanno caratterizzato gli anni Ottanta. Ci vorranno dieci anni dal 2014 per tornare al Pil del 2007. Nel frattempo saranno cambiati gusti, abitudini, usi degli strati più colpiti dalla crisi, in particolare delle fasce che in questi anni hanno disceso uno scalino nella scala sociale.



C’è un aspetto poco notato ma di rilievo Le famiglie italiane, specialmente quelle a reddito medio-basso, sono resilient – un temine inglese, centrale negli ultimi rapporti Ocse e Banca mondiale sulle difficoltà di questi ultimi anni – che non ha equivalente esatto in italiano e che indica la capacità di saper “resistere con perseveranza e inventiva”. Alla perdita di reddito (e di benessere in senso lato) – in gran misura a causa della diminuzione delle tutele del lavoro dei “capifamiglia” (considerata da molti istituti internazionali “una peculiarità del mercato del lavoro italiano”) – le famiglie hanno risposto con resilience.



A fronte di un forte aumento delle famiglie “senza occupati e senza pensioni” (da 1,4 milioni nel 2008 a 2,1 milioni nel 2013- un balzo impressionante del 49% nell’arco di un lustro), i nuclei hanno dato prova di una grande capacità di adattamento con pervicacia e fantasia. Attenzione: non si tratta dell’arte di arrangiarsi dei film di Totò e Steno, ma di scelte economiche razionali che le politiche pubbliche dovrebbero comprendere e premiare poiché portano a una migliore utilizzazione delle risorse e, quindi, a un aumento della produttività del Paese. Anche se i costi ricadono principalmente sui nuclei meno favoriti.



La caratteristica principale è il “ricompattamento” delle famiglie di fronte alla crisi, per creare sinergie, economie di scale e in gergo economico “internalizzare esternalità” (ossia, come nei distretti industriali, massimizzare all’interno della famiglia quelli che sarebbero eventuali effetti esterni). Il “ricompattamento” vuol dire che cresce il numero delle famiglie composte da più nuclei: un milione e 567 mila persone nel 2012-2013 con un aumento di 438 mila unità nel 2006-2007 (una crescita di un terzo).

Se si scava nei dati ci si accorge che le caratteristiche principali sono due: l’incremento di titolari di pensioni basse (o molto basse) che vanno a vivere con nuclei (della medesima famiglia) dove c’è almeno un occupato e di titolari di pensioni di buon livello che vivono con persone in cerca di occupazione (o perché alla caccia del primo impiego o perché hanno perso il lavoro). Questa seconda fattispecie ha avuto un rapido aumento nell’ultimo lustro: i pensionati – lo mostrano dati Bankitalia e Istat- rappresentano sempre più frequentemente una risorsa economica all’interno delle famiglie in cui qualche componente ha perso il lavoro.

Ciò ha implicazioni di grande rilievo per la politica della famiglia e della previdenza. Da un lato, i dati mostrano l’urgenza del quoziente familiare nella struttura tributaria, anche solo per rallentare la riduzione del tasso di natalità e il conseguente invecchiamento della forza lavoro potenziale (una delle cause principali della perdita di produttività e di competitività dell’Italia). Si tratta di un sistema di imposizione tributaria che tiene conto dei carichi familiari. In pratica è un metodo di calcolo, adottato per esempio dalla Francia, che modula l’applicazione dell’imposta sul reddito all’insieme dei redditi dei membri della “famiglia fiscale”, composta dal contribuente, dal coniuge, dai suoi figli minorenni e dalle persone invalide conviventi. Diversamente da quanto è in vigore attualmente in Italia, dove la tassazione ha una base individuale (Irpef), che, a parità di reddito, penalizza le famiglie monoreddito e quelle con figli a carico. Cosa peraltro oggetto di critiche anche in alcune sentenze della Corte Costituzionale. È utile ricordare che il Presidente del Consiglio si è espresso più volte in favore del quoziente familiare. È importante che il dicastero pertinente (Economia e Finanze) precisi a quale modello ispirarsi (se quello francese o altri) e quale sarebbe la eventuale perdita di gettito e relativa copertura.

Da un altro lato, occorre evitare misure che non comprimano ulteriormente le pensioni medio-alte (con blocchi alle indicizzazioni e “contributi di solidarietà” peraltro già dichiarati incostituzionali dalla Consulta) perché sono i nonni ad assicurare il benessere e la formazione dei nipoti – le nuove generazioni dalla cui produttività e competitività dipende il benessere di tutti gli italiani nel futuro. Al riguardo alcune componenti che sorreggono il Governo (e il Commissario alla spending reviewCarlo Cottarelli) non la pensano in questo modo, anche se il Presidente del Consiglio ha assicurato che non si progettano ulteriori interventi. L’austerità in questi campi penalizza non soltanto i nuclei meno abbienti, ma l’intero Paese.