Nel lontano 1884, al Congresso di Berlino in cui le Grandes Puissances (oppure coloro che si ritenevano tali) si spartivano, sotto la regia del Cancelliere dell’Impero Tedesco, quelli che erano i possedimenti coloniali – nell’assunto che non si aveva titolo a fare parte del “club” se non si avesse avuto una colonia in aree da modernizzare (e da cui estrarre materie prime e prodotti di base) -, Otto von Bismarck pronunciò una frase che Matteo Renzi dovrebbe tenere bene a mente: “Gli italiani hanno un grande appetito ma una dentatura debole”. 



La storia non si ripete, ma chi non ne assimila le lezioni può cadere in errori, a volte fatali. Sta per iniziare un “semestre europeo” il cui fulcro sarà proprio a Berlino. L’Italia si presenta con una strategia ambiziosa, di grande appetito, ma con riforme istituzionali ancora in fase di pre-cottura, riforma economica ancora allo stadio di prepararne le ricette, un verdetto non positivo da Standard & Poor’s, una lettera di fine missione del Fondo monetario con ombre e luci. Il quadro è più positivo di quanto non fosse un anno fa poiché c’è stato un ricambio generazionale in Parlamento e al Governo e, da parte dell’Esecutivo, c’è una forte volontà di riformare il Paese (anche se non ne sono chiari i contenuti né agli specialisti, né alle massaie di Voghera).



La strategia delineata è degna di un forte appetito: a) nel breve termine giungere, al Consiglio europeo di Ottobre, a un patto “flessibilità di bilancio come premio per le riforme” (non è cosa nuova: la teorizzo Willy Brandt in un libro del 1980 ma forse il nostro ceto politico non lo sa), b) impostare la nuova legislatura del Parlamento europeo che inizia in questi giorni. Ma la dentiera resta debole.

A mio avviso, per il Consiglio europeo di ottobre, sarebbe auspicabile redigere un “piano B” per risolvere alcuni nodi (il sistema di pagamenti Target2, la redazione di un Industrial compact che equilibri alcuni effetti del Fiscal compact e simili) se le messa in atto del “patto Brandtiano” continua a sembrare una irraggiungibile chimera.



Occorre, invece, concentrarsi sul Parlamento europeo (Pe). Anche perché il nuovo Pe ha tutta la volontà di fare sentire le proprie prerogative e quelle fondamentali, in materia di bilancio Ue, coincidono con gli interesse nazionali italiani. In breve, è soprattutto il Pe a cui ci si deve rivolgere (e gli italiani hanno un peso non indifferente sia nel gruppo parlamentare socialista e democratico, sia in quello popolare, sia tra quelli euroscettici ed euro-perplessi) perché la malmessa Italia non sia più non solo il terzo contributore netto in termini assoluti al bilancio Ue ma anche quello il cui contributo incide di più sul Pil (più di quelli di Spagna, Francia, Germania e Regno Unito). Ci sono numerosi aspetti storici, tecnici e procedurali affrontati tra l’altro in un lavoro di prossima uscita del Direttore del Censis, Giuseppe Roma.

Non è questa la sede per affrontare tali aspetti, principalmente l’intricata matassa che ha portato a questa situazione. Tuttavia, una soluzione favorevole a Roma è più fattibile al Pe (dove ci si orienta e si vota per gruppi politici) che in seno al Consiglio europeo, dove prevalgono le logiche nazionali e i “do ut des” tra Stati dell’Ue.

Si tenga, poi, presente che parte delle risorse dell’Ue per l’Italia (fondi strutturali in prima linea) non vengono utilizzate a ragione dell’inefficienza delle nostre strutture amministrative e della nostra incapacità di preparare e attuare progetti. Al danno si aggiunge la beffa, perché ciò che non utilizziamo viene, alla fine del ciclo di bilancio, trasferito ad altri Stati Ue.