L’11 luglio avrebbe dovuto svolgersi la conferenza dell’Unione europea sui temi dell’occupazione. E simbolicamente la sua sede doveva essere a Torino, dove anni or sono, dopo l’Esposizione del 1961, trovarono una decentrata collocazione alcuni uffici del Bureau International du Travail, che da Ginevra trasferì qui parte dei suoi quadri, in una difficile negoziazione internazionale che vedeva l’Italia ancora dotata di un certo prestigio nel novero delle nazioni europee. Ha destato sconcerto tra i pochi che ancora si interessano dei temi del lavoro – i sindacati sinora, per esempio, non hanno proferito verbo – il rinvio della conferenza, quasi che l’aumento costante della disoccupazione non costituisse un problema. E ancor più sconcerto hanno provocato le parole del nostro serafico ministro del Lavoro Poletti, che tra un weekend e l’altro in roulotte ha trovato il tempo di dichiarare che non vi era nulla di preoccupante e che rispetto ai temi decisivi del semestre italiano vi era la necessità di ponderare con calma la questione. Eppure la crescita e l’occupazione non debbono essere i tratti istintivi della nostra Presidenza europea, forti come siamo – e di cui anch’io ho in questa prospettiva gioito – del 41% del vittorioso Pd? Ma il rinvio sembra essere la tattica vincente.



Guardate la riunione che si è svolta nei giorni scorsi a Parigi quasi in sordina tra il gruppo dirigente del Pse, ospitata da uno sfinito Hollande. Si è scritto di una riunione in incognito, tranquilla, senza una qualsivoglia manifestazione, come si sarebbe fatto nel tempo degli ideali socialisti… Eppure, Parigi era bloccata sia dal discusso sciopero divisivo dei ferrovieri, sia dalle manifestazioni tutt’altro che divisive appoggiate da tutta la popolazione (sono i figli e le figlie…) dei precari o degli interinali o chiamateli come volete, ossia dei nuovi dannati della terra che lì in Francia hanno costituito un’associazione nazionale e combattono a viso aperto per il ritorno a regole civili da lavoro salariato sia pure interinale ma non schiavistiche come quelle oggi in uso in tutto il mondo.



Eppure i partiti socialisti europei su ciò non hanno detto una sola parola e hanno invece manifestato il loro consenso sulla nomina di Juncker alla testa della Commissione, purché Schultz ritorni a essere presidente del Parlamento europeo. Non c’è che dire, una bella prova d’inerzia e di ignavia! Non una parola sul programma comune che tutti si attendevano su lavoro e crescita e poi chissà che altro. Eppure i tempi sono gravi se dobbiamo leggere sulle colonne di tutti gli analisti dei grandi fondi che la bassa inflazione, ossia la deflazione, sta raggiungendo il cuore e non più solo le periferie dell’Europa, ossia la Germania.



Di più. Se ricorderete la Germania si era detta favorevole alle misure recentemente assunte da Draghi, ben lontane dal Qe ossia dalle misure tipo Fed e banche centrali di Giappone e Regno Unito, ma pur sempre invise alla retorica dominatrice ordoliberista teutonica. Molti degli analisti si chiedono il perché di questo rammollimento della Germania. La risposta è duplice. La prima è quella detta in precedenza: la stagnazione, checché ne dicano gli inconsapevoli, sta aggredendo la Germania e se essa si ferma o rallenta tutta l’Europa morirà di broncopolmonite. Vi è poi un’altra tesi che dice che i tedeschi allentano i loro principi perché sono preoccupati del rallentamento della Francia che, a sentire e a leggere ciò di cui si discute e si scrive nei suoi centri di ricerca, sta piombando in una crisi irreversibile.

Vi è certo un po’di esagerazione, ma la questione è sul tappeto. Non a caso la Germania approfitta della debolezza francese per inserirsi nella partita dell’assalto ad Alstom condotta da General Electric per insidiare, con i giapponesi, il grande ruolo francese nelle turbine per reattori nucleari et similia. Non si son fatti i conti con l’aggressività straordinariamente intelligente del capo della GE, Immelt, il quale ha proposto non solo un piano occupazionale ben vantaggioso per l’azienda francese, ma è altresì disposto a condividere non solo più gli azionisti privati ma pure lo Stato nella governance e nella proprietà, sulla scia delle giuste teorie del Montebourg ministro dell’Economia. Lo Stato francese ha acquistato dal gruppo Bougues il 20% della quota (il 29%) da questo posseduta in Alstom, dando in tal modo vita a una ben strana creatura di corporation big global player: Usa e insieme impresa pubblica e privata francese, dove lo Stato potrà sempre dire l’ultima parola ed entrare in campo non dall’esterno, ma dall’interno dell’impresa.

Ma va notato, è questo che più mi interessa geo-strategicamente, che così GE controlla ora la spina dorsale del motorismo e della meccanica di precisione computerizzata (meccatronica semiautomatizzata) proiettata sul futuro, ossia con le macro stampanti 3-D in tutta Europa. Di fatto, con l’acquisto recente della gloriosa Avio in Italia e ora di Alstom in Francia, spiazzando l’industria tedesca su un terreno che si credeva fosse – nel Vecchio continente beninteso – di solo domino teutonico-italico. Ebbene, che cosa vi è alla base di tutto ciò? Non vi è solo il profitto o la sete di potenza. Vi sono le preoccupazioni geostrategiche della direzione cuspidale degli Usa, che sarà debole e fragile ma è ancora prima donna quando si tratta di corporation e di affari corporati.

Lo spiega bene il Fondo monetario internazionale che pochi giorni or sono ha sferrato un attacco frontale alla Bce e quindi al divino Draghi, il quale, se va avanti così, vede in pericolo il suo futuro. L’accusa è quella di non far ripartire l’Europa sul modello Usa, ossia con il quantitative easing fin che basta. Il documento è molto duro. È un monito anche per i partiti socialisti europei e anche per il nostro Matteo Renzi, il quale miete successi non solo elettorali, ma di trasmigrazione di classi politiche attratte dal vincitore in Patria – e di ciò si deve gioire anche perché conferma le tesi sul trasformismo come tema topico e critico della circolazione delle classi politiche italiche come ci insegna Gaetano Mosca. Ma deve anche lui star bene attento. Ora bisogna fare, bisogna agire.

E le mummie non sono solo quelle di casa nostra. Ci sono anche quelle dell’Internazionale Socialista. Essa è un museo egizio d’infimo ordine. Guai a lasciarsi ammaliare dall’odore putrescente che promana dalle sue sale d’esposizione, ben diverse da quelle più nascoste ma ben più vitali delle organizzazioni sindacali e di quelle minoranze che ancora vogliono costruire un’alternativa socialista e democratica a questa Europa decadente e ingiusta. Non si può sempre rinviare, soprattutto se si parte veloci.