Lo schianto è dietro l’angolo. Non lo dico io – o, almeno, non solo io – ma la Bce, nero su bianco. Nell’ultimo bollettino trimestrale sulla stabilità finanziaria, pubblicato a inizio giugno, l’Eurotower ammonisce che la minaccia principale proviene da «una brusca inversione della ricerca globale di rendite, tra sacche di illiquidità e probabile riallineamento dei prezzi dei titoli». Ma guarda, proprio quello che vi sto dicendo da mesi e mesi. In parole povere, la Bce teme una brusca inversione dei flussi di capitale che hanno inondato l’Eurozona e lo scoppio della bolla dei titoli finanziari. Nei mesi scorsi, a dire il vero dall’estate scorsa ormai, i capitali sono fuggiti dai cosiddetti mercati emergenti e sono confluiti nell’Eurozona, gonfiando la bolla dei titoli pubblici e dei mercati azionari, peccato che man mano che l’economia reale transatlantica scivoli come sta facendo in una spirale deflazionistica, si avvicini anche l’esplosione della bolla.



Lo stesso Mario Draghi ha detto che adesso il nemico da abbattere è «una perniciosa spirale negativa» di bassa inflazione e bassa propensione al rischio di credito e se la situazione dovesse peggiorare la Bce potrebbe persino iniziare ad acquistare direttamente titoli pubblici: «Dall’altra parte dello spettro ci sarebbe un allontanamento troppo prolungato dell’inflazione e/o delle aspettative di inflazione dal nostro scenario proiettato di base… questo richiederebbe un approccio più espansivo, che sarebbe il contesto per un programma di acquisto dei titoli più allargato». Insomma, prepariamoci a un’estate bollente e non solo dal punto di vista meteorologico.



Il perché è presto detto: la nuova crisi potrebbe esplodere in un momento in cui le politiche monetarie di eurozona e mondo anglosassone sono divergenti come non mai, scoprendo così nervi molto dolorosi. L’ultima volta che la Fed si è lanciata in politiche restrittive, infatti, risale a un decennio fa mentre l’area euro non era mai entrata prima d’ora in una logica di tassi di interessi negativi: il mercato, quindi, attende di capire quanto di più sia la Fed che l’Eurotower potranno fare ma qui sta la logica distorsiva, visto che “fare di più” per la banca centrale Usa significa più restrizione, mentre per quella europea più politica espansiva e accomodante.



Con queste aspettative, di fatto e con la divergenza netta delle due azioni, il mercato ha avuto come reazione in queste settimane quella di pensare e scommettere su una svalutazione dell’euro sul dollaro, come mostra il grafico qui sotto. Peccato che un euro più debole sia stato previsto decine di volte dai mercati finanziari, ma la realtà è quella di un indebolimento limitato nel tempo e soltanto dopo gli interventi di Mario Draghi, dopodiché si è tornati comunque a livelli che mai hanno abbandonato quota 1,36 sul biglietto verde.

Com’è possibile? Perché la moneta unica si comporta in maniera differente da quanto preventivato dai mercati? Tocca tornare indietro un po’ nel tempo per capire, almeno a mio modo di vedere, ed esattamente al momento in cui la crisi sta per esplodere e portare con sé la sua prima vittima, ovvero il collasso della cosiddetta globalizzazione, la vera rivoluzione dell’economia mondiale e l’atto con maggiori implicazioni sui mercati finanziari. Attenzione, non confondete il collasso della globalizzazione con quello del commercio globale, visto che gli export a livello mondiale (come componente percentuale dell’economia) sono ai livelli più alti dal 2007, ciò che è collassato è il flusso di capitali globali (sempre come componente percentuale dell’economia), oggi a un terzo del livello pre-crisi e circa alla metà della media registrata nel decennio precedente alla grande crisi che stiamo ancora vivendo.

Cos’ha portato a questa situazione? Diversi fattori, uno dei quali è la maggiore regolamentazione cui devono far fronte molti investitori, in particolare le banche, rispetto al periodo pre-crisi, fatto questo che è diventato quasi una “scusa” per investire in mercati domestici – ovvero, per un Paese europeo, in casa o nell’eurozona – sia come risposta alle regolamentazione, sia come obiettivo politico reale. Inoltre, molte legislazioni nate dalla crisi sono diventate dei deterrenti per investitori esteri, i quali ci pensano due volte prima di allocare il loro denaro in un mercato di cui conoscono poco o niente le legislazioni sul capitale.

Il problema è che quando i flussi di capitale sono abbondanti, un’economia con un deficit di conto corrente non ha particolari problemi a reperire gli inflows di capitale necessari a finanziare quella posizione di “rosso”, visto che negli anni pre-crisi solo un quantitativo limitato di capitale globale è servito a quel fine. Ma quando come oggi i flussi di capitali sono ridotti all’osso, le nazioni con un alto deficit devono fare i salti mortali per attrarre i capitali di cui necessitano: esattamente, gli sforzi sono triplicati, visto che i flussi di capitale sono un terzo di quanto fossero nel 2007.

Ed ecco la questione euro forte: l’eurozona, infatti, vanta un surplus di conto corrente, mentre gli Stati Uniti sono in pieno deficit. Quindi, il differenziale sui tassi di interesse dovrebbe portarci a un euro più debole (avendo noi i tassi sui depositi addirittura negativi), mentre la posizione di conto corrente porta a un euro forte sul dollaro. Sono due forze che si stanno battendo, invisibilmente ai nostri occhi, sul mercato dei cambi valutari esteri e il risultato, per ora, è quello di un euro molto meno debole di quanto i mercati preventivassero, Mario Draghi in testa. Quindi, flussi di capitale ridotti significano meno inflows di capitali nei mercati asiatici, un qualcosa che ha già ridotto – e non di poco – il ritmo di accumulazione di riserve valutarie estere e inoltre può portare a una meno efficiente allocazione delle riserve di capitale a livello globale: insomma, come vi dico da tempo, il denaro delle banche centrali sta circolando attorno al mondo alla ricerca disperata di rendimento ma quel denaro, nonostante le stamperie di Stato, è un terzo di quello che era in circolazione nel 2007, solo sette anni fa, prima di Lehman Brothers e i rendimenti si stanno abbassando sempre di più, tanto che negli Usa stanno flirtando in alcuni casi corporate con il tasso di inflazione all’1,8%.

Capite ora perché la Bce stessa ha paura per il probabile arrivo di «una brusca inversione della ricerca globale di rendite, tra sacche di illiquidità e probabile riallineamento dei prezzi dei titoli»? Capite perché Mario Draghi, tranne le conferenze stampa post-riunione del board, non parla, quasi è sparito? Perché stavolta il redde rationem è davvero alle porte e in condizioni di stabilità finanziaria che rispetto al 2007 sono devastate e devastanti: ora capite perché gli indicatori di rischio sono ai massimi e i grandi player stanno coprendosi con opzioni put “out of the money”? Mentre il parco buoi festeggia sempre nuovi massimi sugli indici, chi dà le carte o comunque siede al tavolo che conta, sta già muovendosi verso l’uscita di emergenza.

Il giochino sta finendo, ma state certi che la Fed lo farà terminare davvero solo quando sarà certa di chi saranno le vittime principali: Europa e mercati emergenti, Russia in testa. Più che geofinanza, qui siamo alla guerra finanziaria pura e semplice.