Strano Paese l’Italia. Quando un Presidente del Consiglio stabilisce con decreto legge un prelievo forzoso retroattivo sui conti correnti bancari, ottiene negli anni successivi incarichi di governo e di nuovo la poltrona di primo ministro. Quando, trascorsi più di 20 anni, un altro Premier aumenta un’imposta di oltre il 30%, riesce a guidare il suo partito a una strepitosa vittoria elettorale, con più del 40% dei voti. Matteo Renzi, ben più scaltro di Giuliano Amato, ha sì infatti incrementato sotto elezioni le buste paga di oltre 10 milioni di italiani; ma con lo stesso provvedimento ha anche fatto salire (a partire dal prossimo 1° luglio) dal 20% al 26% un’imposta che colpisce una platea più ampia di cittadini, perlomeno tutti quelli che hanno un conto corrente (che sia bancario o postale).
L’ex Sindaco di Firenze sa quanto conti la comunicazione, perciò l’annuncio di un ritocco all’insù per l’imposta sulle rendite finanziarie, alle orecchie di molti italiani, deve essere risuonato come una punizione per tutti quei signori la cui unica occupazione è passare la giornata sui monitor collegati ai listini azionari, pigiando tasti e dando ordini di acquisto o vendita alla ricerca di facili guadagni.
Peccato che rendite finanziarie siano anche gli interessi sui conti correnti o sui conti deposito. E a poco serve giustificarsi, come fatto da alcuni esponenti del Pd, sostenendo che attualmente gli interessi sono così bassi da rendere quasi insignificante l’aumento del tributo: un giorno i tassi potrebbero salire, ma difficilmente le tasse prenderanno una direzione opposta. Rendite finanziarie sono poi quelle realizzate dalle Casse previdenziali privatizzate, il cui intento non pare tanto quello di fare soldi in borsa, ma di riuscire a pagare quanto spetta anche ai futuri pensionati.
Insomma, per una strana concezione del risparmio, quest’ultimo appare quasi come un’ingiusta accumulazione di ricchezza, che ovviamente va sanzionata con una maggiore tassazione. Come se pensare al proprio domani fosse un peccato, come se investire (magari i proventi del proprio reddito, già passati sotto la “tosatura” del fisco) in titoli di aziende, nonostante la retorica della necessità di finanziamenti a loro favore, non fosse un’operazione rischiosa, in cui il ricavo non è certo, ma ciononostante va plus-tassato.
Certo, si potrà dire che i veri risparmi, quelli della “vecchina” in titoli di stato o in buoni fruttiferi postali, non subiscono alcun aumento di imposta, che anzi a questo punto è più che dimezzata (12,5% contro il 26%) rispetto a quella gravante sugli altri titoli. Perché questo diverso trattamento? Perché un’obbligazione di uno Stato deve essere privilegiata rispetto a quella di un’azienda? Perché un investimento che presenta un ritorno “certo” (la cedola) è “privilegiato” rispetto a un altro che invece è più rischioso e dagli esiti più incerti, come un titolo azionario?
Misteri del sistema tributario italiano. Lo stesso che considera passibile di imposta (la Tobin Tax nello specifico) un soggetto (il cosiddetto cassettista) che acquista azioni come forma di investimento a medio-lungo termine, mentre rende esente chi acquista e vende le azioni nella stessa giornata (ovvero i trader professionisti). Non so se è ben chiaro, ma la Tobin Tax, ovvero l’imposta che è stata presentata come portatrice di maggior giustizia nei confronti di chi cerca facili guadagni in borsa, non viene applicata a chi compie operazioni intraday, ovvero a chi cerca un guadagno immediato nell’arco massimo di circa otto ore e mezza. Siamo alla follia fiscale.
La stessa per cui in ogni passaggio di un investimento occorre versare un “pizzo” allo Stato. Se infatti si acquistano azioni di società italiane (con capitalizzazione superiore a 500 milioni di euro) e non le si rivende il giorno stesso occorre pagare la Tobin Tax. Per “custodire” poi queste azioni occorre versare un’imposta di bollo proporzionale al valore di mercato delle stesse (questo anche in caso di obbligazioni e titoli di Stato). Badate bene, queste due imposte sono dovute qualsiasi sia l’esito dell’investimento, anche se porterà a una perdita. Se invece, come ci si augura, una volta venduti i propri titoli si otterrà un guadagno, occorrerà versarne oltre un quarto (salvo il caso di titoli di stato, anche non italiani) al Fisco.
Per quale ragione questo prelievo continuo sia giustificabile resta un mistero. Di certo i veri “uomini d’affari”, quelli che vogliono fare soldi coi soldi, sanno benissimo come fare per evitare i “morsi” del fisco italiano. Se poi uno volesse comprare titoli di stato, per non incappare nell’imposta aumentata, come potrà farlo con ritorni decenti, dato che il mercato obbligazionario è completamente in bolla e trovare un titolo prezzato sotto il valore nominale è impresa ardua (impossibile nel caso di Bot o Btp italiani)? A meno di non volersi buttare sui bond argentini, propriamente dei titoli non molto sicuri, come è emerso nei giorni scorsi.
Piccola perla finale. Nel convertire in legge il decreto del Governo, il Parlamento ha ben pensato di aumentare di mezzo punto percentuale l’imposta sui fondi pensione (dall’11% all’11,5%), ovvero su quel terzo pilastro della previdenza che si ritiene importante in un Paese in cui gli assegni pensionistici saranno sempre più contenuti negli anni a venire. Davvero uno strano Paese l’Italia…
P.S.: Qualcuno potrebbe far notare che l’aumento dell’imposta sulle rendite finanziarie serve a finanziarie il taglio del 10% dell’Irap. In questo articolo ho preferito concentrarmi sulle tasse che gravano su tutti i cittadini, e non solo sulle imprese, pur tacendo su un “pastrocchio fiscale” che risponde al nome di Tasi. In ogni caso, diminuire un’imposta ritenuta “folle” dai più per aumentarne un’altra si può definire riduzione delle tasse?