“In culo ai negri di Harlem. Non passano mai la palla, non vogliono giocare in difesa, fanno cinque passi per arrivare sotto canestro, poi si girano e danno la colpa al razzismo dei bianchi. La schiavitù è finita centotrentasette anni fa. E muovete le chiappe, è ora!”. È un frammento di uno dei più bei dialoghi del film “La 25a ora” di Spike Lee. Mi è subito venuto in mente leggendo un recente pezzo del Wall Street Journal, a firma di Simon Nixon, che sbaracca il consolatorio e unisono dibattito italiano sulla malefica austerity, le disgrazie portate all’Italia dall’euro, la perfida politica economica germanocentrica che ha affamato un Paese altrimenti florido e gli altri argomenti autoassolutori delle prefiche del main stream politico.
Quanto piuttosto è in atto in Europa, in realtà, secondo il noto editorialista, è un robusto confronto tra due culture economico-politiche. Quella del “settore privato”, che crede che la crescita sostenibile dipenda da esportazioni e investimenti e sottolinea pertanto la necessità di avere un’economia forte e aperta, con i suoi corollari di un mercato del lavoro flessibile e orientato a premiare la produttività, una fiscalità non punitiva per l’impresa, investimenti in capitale umano. E quella del “settore pubblico e sindacale”, che ritiene che “la crescita dipenda dal mettere più soldi nelle tasche della gente così favorendo le politiche dal lato della domanda” . Sono le note posizioni keynesiane convinte che aumentare la spesa pubblica, incoraggiare la capacità di debito individuale e collettivo, aumentare i salari e proteggere nelle crisi i posti di lavoro sia la strada per lo sviluppo.
Naturalmente queste culture sono presenti anche all’interno dei singoli stati, ma in Italia la seconda copre un arco costituzionale vastissimo che non lascia scampo alla prima. Nei giorni scorsi è stata, ad esempio, depositata domanda referendaria contro alcune misure attuative del trattato conosciuto come “Fiscal compact” da parte di intellettuali della più varia estrazione politica. Si va dai consueti Realfonzo (area Rifondazione Comunista) e Piga (Scelta Europea), a Salvi (ex capogruppo di Sinistra Democratica) e Baldassarri (ex viceministro dell’Economia del governo Berlusconi). Eppure gli ultimi dati sulla crescita in Europa, per Paese, snocciolati nel pezzo del Wsj, potrebbero indurre a un pensiero più articolato. Ci dicono, ad esempio, che l’Irlanda ha una crescita prevista per quest’anno all’1,7% e al 3% per il prossimo, con una ripresa dei prezzi delle case e dei prestiti bancari. Che la Gran Bretagna dovrebbe crescere quest’anno del 3,1% e che porterà il suo tasso di disoccupazione al 6,8%. Che la Germania, dopo le dolorose cure del governo Schröder al suo welfare e al suo mercato del lavoro, crescerà quest’anno e il prossimo di circa il 2%, con un tasso di disoccupazione intorno al 5%. Buone performance di crescita segnano anche gli stati baltici che hanno percorso medesimi sentieri da “economia aperta”.
Dati che se comparati con paesi dove la “cultura del settore pubblico” è dominante fanno in effetti qualche impressione. La Francia ha una forte base industriale e aziende di prim’ordine schierate nelle competizione globale. Tuttavia, sta subendo una forte contrazione della sua competitività a causa della sua significativa spesa pubblica che ha spinto in alto la pressione fiscale, di un mercato del lavoro rigido, del costo dello stesso relativamente elevato. L’Italia a questi problemi aggiunge, com’è noto ormai all’universo mondo, “una Pubblica amministrazione inefficiente, un sistema giudiziario che fa acqua, alti livelli di corruzione e di evasione fiscale”.
Questi due paesi, che insieme rappresentano quasi la metà del Prodotto interno lordo della zona euro si prevede che cresceranno quest’anno, rispettivamente dell0 0,8-1% (la Francia) e dello 0,2%-0,6% (l’Italia). Certo, nelle condizioni date da una rigida disciplina fiscale europea, che in particolare con il “two pacs” e il trattato sul “Fiscal compact” ha ingabbiato le pulsioni di spesa delle culture dominanti nelle due nazioni (e un debito pubblico che produce interessi per l’Italia tra i 75 e gli 80 miliardi l’anno), non è restato ai governi francesi e italiani che imbarcarsi in riforme che investano il lato dell’offerta, essendo lo stimolo della domanda a dir poco problematico (al netto di operazioni simboliche come fatto con gli 80 euro da Renzi).
Ma il punto è un altro e richiederebbe una qualche riflessione politica nel Bel Paese, che latita. Che latita perché latita o è afona in Italia una forza di massa genuinamente ispirata dalla cultura del “settore privato”. Non è per nulla un caso che le posizioni delle forze di centrodestra, Forza Italia in testa, durante questa crisi, siano state di fatto coincidenti con il “fuck austerity” della sinistra dei centri sociali. Negli anni centrali del governo Berlusconi, dal 2001 al 2009, la spesa corrente al netto degli interessi è passata da poco meno del 40% al circa 48% del Pil (anche, alla fine, a causa del calo del reddito nazionale) trascinando in alto, inevitabilmente, la pressione fiscale. Né si segnalano eclatanti atti di apertura dei mercati alla concorrenza in quei governi (neanche quelli dei “nemici” delle municipalizzate). Ma naturalmente l’aver sfiorato il crac finanziario e centrato il collasso economico, dopo aver goduto per molti anni di tassi sostanzialmente uguali alla Germania, è colpa dell’euro, della Merkel e di Barba Blu.
Oggi un dato da cui partire per ricostruire quell’area politica è prendere atto che semplicemente non esiste. Perché se vi fosse, si sarebbe certamente opposto alla vera e propria truffa del linguaggio che da noi ha sovrapposto senza residui il termine “rigore” a “tasse” , in un’endiadi che non ha pari in Europa. Avrebbe spiegato che nessuno dalle parti di Bruxelles ha chiesto il cilicio fiscale per i reprobi. Anzi. Sono proprio le vituperate autorità europee (con in testa la Bce) ad aver fatto e fare pressioni in direzione opposta. Ciò perché si ritiene meno intenso e più breve l’impatto sulla crescita della riduzione del deficit pubblico (per quanto pro-ciclico), con selettivi tagli di spesa, rispetto a quello frutto della leva fiscale. Ma non fa chic dire che la Bce o altre istituzioni europee erano e siano nel giusto.
Qualcuno, appartenente a quella cultura, avrebbe chiesto se veramente questo Paese, al di là dei conati di spending review degli ultimi governi, abbia veramente conosciuto il “rigore” come lo intendono “gli altri”. Se sia serio brutalizzare quel termine in uno Stato in cui, sovente, la Pubblica amministrazione rappresenta un gigantesco ammortizzatore sociale, un reddito minimo di cittadinanza surrettizio, selettivo e permanente. Laddove circolano battute sul numero dei forestali che sopravanza quello degli alberi in parti del suo territorio. In cui un approccio lasco sui temi della corruzione fa galoppare i costi delle opere pubbliche.
Ora, tutte le ideologie sono veleno. Compresa quella liberale quando diventa tale. È vero che le riforme (che non abbiamo fatto) costano, come pure che, a un certo punto, il Paese è entrato in una crisi di liquidità e che era pertanto necessario mettere della benzina nel motore in panne. Ma il motore deve esserci ed essere dotato di forza propulsiva, durevole. Abbiamo sotto gli occhi decenni di politiche keynesiane che hanno prodotto un gigantesco debito che abbiamo accollato ai nostri figli e che alla lunga ha solo portato povertà. Abbiamo anche sotto gli occhi il più grande esperimento di imponenti politiche keynesiane condotto con accanimento per decenni e decenni in una parte d’Italia: il mezzogiorno. È il caso di allargare il modello economico alla restante parte del territorio? O piuttosto di prendere atto che un mondo è al tramonto, la schiavitù è finita ed è il caso di muovere le chiappe?