Poteva andare peggio, anzi stava per andare molto peggio, perché solo per un pelo, dopo una lunga trattativa notturna, è stato tolto dalla bozza delle raccomandazioni un no che avrebbe fatto uscire dai gangheri Matteo Renzi, cioè il no al rinvio del pareggio di bilancio. In ogni caso, l’Italia non ha superato l’esame. Dovrà fare i compiti a casa. Ancora! Il programma presentato dal governo è stato apprezzato, ma viene ritenuto incompleto. Quindi la Commissione di Bruxelles ha deciso di rimandare all’autunno un giudizio più compiuto. Intanto, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, deve preparare “misure aggiuntive” per rispettare i requisiti del patto di stabilità. Insomma, un’altra stretta.



Il lupo perde il pelo, non il vizio. Manuel Barroso, Olli Rhen e l’intera Commissione sono in scadenza, anzi di più, sono stati bocciati dal voto degli elettori, non solo dagli euroscettici, ma anche dal giudizio degli europeisti. Il tentativo di riproporre gli uomini del passato (definizione di François Hollande) come Jean-Claude Juncker non fa che alimentare malumori e dissensi. Eppure gli eurocrati continuano a comportarsi allo stesso modo. Non perché debbono fare degli sconti all’Italia, ma sentire Barroso ripetere il solito mantra sul rigore che s’accompagna allo sviluppo fa davvero cadere le braccia.



Misure aggiuntive, dunque. A quanto ammontano? Se si considera che Bruxelles valuta in 0,7 punti di prodotto lordo la correzione per pareggiare il bilancio e il governo invece calcola appena lo 0,1, ebbene quella sfasatura di sei decimali equivale a circa 9 miliardi di euro, da recuperare entro l’anno. Come? L’Ue dà anche dei consigli concreti, anzi quasi scrive la politica fiscale che Renzi dovrebbe limitarsi a ricalcare con la carta carbone: aumenti delle tasse sugli immobili, sui consumi e sull’ambiente, proprio mentre da altre parti si dice che la via maestra per il risanamento non è aggravare ancora le imposte (è questa, ad esempio, l’opinione della Banca d’Italia e della Bce).



Vedremo come Renzi risponderà, ma certo non è un gran viatico al semestre europeo. È vero, il rinvio di un anno nel pareggio strutturale resta possibile, però il percorso deve cominciare subito con un nuovo giro di vite che gela i germogli della crescita. Non sarà facile per il governo italiano far passare la richiesta di escludere dal calcolo gli investimenti (operazione non riuscita né a Monti, né a Letta) e nemmeno tenere in considerazione le specificità italiane (alto livello di ricchezza e di risparmio) come aveva tentato Silvio Berlusconi. Anzi, quest’ultimo argomento potrebbe trasformarsi in un boomerang portando acqua al mulino della patrimoniale proposta dalla Bundesbank come soluzione per ridurre il debito pubblico italiano. Un’idea nient’affatto balzana perché, inutile negarlo, la tentazione corre anche sul filo di palazzo Chigi.

Economisti autorevoli e industriali ancora influenti come Carlo De Benedetti l’hanno detto e ridetto. Anche nel governo circola l’idea di un intervento sulle ricchezze oltre un certo livello. Se ne è parlato come misura di equità alla francese, ma potrebbe diventare qualcosa di simile a una super-imposta. Una strada sdrucciolevole sulla quale potrebbe franare quella piattaforma di fiducia e speranza emersa dalle elezioni, introducendo nuove tensioni e instabilità. Tuttavia, il diavoletto tentatore continua a girare tra i palazzi della politica.

Certo è che Renzi deve finirla con gli annunci per mettere mano, adesso, a leggi e provvedimenti. Il voto gli ha dato uno slancio insperato, al di là delle più rosee aspettative. Ora bisogna chiudere la riforma del mercato del lavoro impedendo che gli aspetti più innovativi vengano ridimensionati se non cancellati. Occorre dire una parola chiara su una spending review diventata come l’araba fenice. E c’è bisogno di stringere davvero sulle riforme istituzionali, dalla legge elettorale al taglio delle province, passando per la telenovela del Senato. Vasto programma, ma ancora non sufficiente. Perché il governo deve fornire una prova più convincente che ha attaccato sul serio il problema numero uno: la drammatica caduta dell’occupazione conseguenza della recessione e della pesante perdita di competitività.

“Un milione di persone in meno tra il 2007 e il 2013 quasi interamente nell’industria, il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato”, ha detto Ignazio Visco all’assemblea della Banca d’Italia. E ha aggiunto: “Aumenti di produttività e crescita dell’occupazione sono conciliabili se si riprende la domanda interna. La chiave è l’aumento degli investimenti fissi”. Dunque, il governo dovrebbe rilanciare gli investimenti. Quelli privati, innanzitutto, “migliorando il contesto in cui si svolge l’attività di impresa”, con un insieme coerente di misure. Le mosse più rilevanti restano la flessibilità nell’impiego di manodopera e la riduzione del cuneo fiscale, vincolate all’aumento degli investimenti perché le imprese, dice ancora la Banca d’Italia, si sono ritirate in se stesse come le tartarughe nel guscio.

Quanto agli investimenti pubblici, Renzi deve raccogliere le risorse disponibili (come quelle europee non sfruttate) e concentrarle su alcuni interventi chiave. Al primo posto c’è l’energia per ridurre la vulnerabilità dal gas russo e abbassare le bollette elettriche (e qui il governo deve chiamare a raccolta l’Eni e l’Enel). Subito dopo vengono le infrastrutture viarie, i porti e gli aeroporti, tutto quel che può migliorare la logistica, vera e propria chiave dell’efficienza, ancor più nelle società moderne. In terzo luogo, l’edilizia, che resta il volano della crescita (ovunque, anche negli Stati Uniti): un progetto di risanamento del tessuto urbano intervenendo su un patrimonio abitativo vetusto metterebbe in moto grandi risorse anche di lavoro. Per trovare le risorse si può far ricorso anche a prestiti straordinari o titoli speciali garantiti sul tipo delle cartelle fondiarie o di quelli che circolano negli Stati Uniti. Le banche avrebbero tutto l’interesse a prestare i soldi in queste condizioni.

Infine, bisogna scrivere nero su bianco una proposta credibile per ridurre una parte di stock del debito pubblico. Di idee ne circolano molte, si tratta di scegliere la più semplice e realizzabile. Il rinvio del pareggio di bilancio è un palliativo che serve a guadagnare tempo; un taglio dello stock di debito consentirebbe di cambiare il Fiscal compact dall’interno, depotenziandolo senza sconfessarlo.

Cuneo fiscale, investimenti, energia, infrastrutture, edilizia, debito: sei punti per una politica economica più ambiziosa, da 41% dei consensi elettorali.