Da un lato, i governi dell’Eurozona hanno riconosciuto, nel recente vertice, la priorità della crescita utilizzando meglio la flessibilità nelle regole europee di ordine contabile. Dall’altro, l’Italia non potrà ricorrere a tale flessibilità perché il suo debito è talmente elevato da costringerla alla priorità del rigore. Per tale motivo Renzi non ha potuto ottenere alcunché di concreto pur guadagnando più rispetto per l’Italia, miglioramento da non sottovalutare visti i precedenti. Anche perché era orientato su una richiesta non ricevibile dall’attuale eurosistema: mettere spesa pubblica di investimento, per stimolare l’economia, fuori dal calcolo del deficit oppure, come la Francia ha ottenuto in silenzio e la Spagna sta trattando riservatamente, tardare di qualche anno il pareggio di bilancio. La risposta è stata un secco no da parte della Germania.



La regola europea, semplificando, recita che una nazione può fare spesa di investimento in deficit, ma solo dopo aver portato il bilancio in pareggio e quindi conquistato uno spazio di nuovo indebitamento, se produttivo, con limite il 3% del Pil. Dice, inoltre, che per nazioni ad alto debito la priorità è di ridurlo. In sintesi, se l’Italia tagliasse spesa corrente per 45 miliardi poi potrebbe utilizzarli per investimenti in deficit, ma poiché ha un debito mostruoso tali soldi andrebbero, invece, usati per abbassarlo.



Questa regola è certamente discutibile. Per esempio, sarebbe più saggio calcolare l’equilibrio di bilancio su cinque anni invece che su uno, lasciando alle nazioni la flessibilità di ricorrere a deficit temporanei oltre il 3% per stimolare la crescita. Ma al momento la regola è così. Il debito italiano sta andando verso il 135% del Pil, la crescita è minima, e sempre più economisti si pongono il problema della sua sostenibilità, alcuni temendo un’insolvenza futura, motivo per cui gli altri europei pretendono dall’Italia la priorità del rigore. Infatti, è incomprensibile perché Renzi si sia fatto alfiere della flessibilità nelle regole europee non potendo l’Italia accedervi.



O forse è comprensibile valutando gli aspetti di politica interna: l’alternativa all’aiuto esterno è tagliare almeno 90 miliardi strutturali di spesa pubblica per ridurre le tasse, mossa che alzerebbe il Pil, e allo stesso tempo pareggiare il bilancio statale. Ma non è possibile che un governo prevalentemente di sinistra, pur con credibili intenzioni riformatrici , che rappresenta un elettorato per lo più di dipendenti pubblici, possa fare un’azione del genere che li renderebbe esposti al licenziamento. Così restiamo bloccati: rigidità esterna e interna.

 

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