Una lettura attenta della documentazione resa disponibile dopo l’ultimo Consiglio europeo – e pubblicata tra il 28 e il 29 giugno su gran parte della stampa economica italiana e internazionale – suggerisce che alla base delle dichiarazioni esultanti del Presidente del Consiglio Matteo Renzi al rientro da Bruxelles – e del silenzio che ha invece contraddistinto il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan – c’è un malinteso. Non sta a un chroniqueur congetturare se all’origine dei due differenti comportamenti ci sia l’inesperienza del primo e la sagacia del secondo (che sta raggiungendo i 65 anni e ha grande dimestichezza con documenti internazionali). Si possono, però, fare deduzioni sulla natura del “malinteso” e sulle sue possibili implicazioni.



In primo luogo, Renzi è, in buona fede, convinto di avere “portato a casa” un impegno dei “Paesi-che-contano” alla sua proposta di un accordo politico “alto”, da formalizzarsi al Consiglio europeo in calendario a ottobre, tra “riforme e flessibilità”. Il prezzo pagato per questo impegno sarebbe il voto dell’Italia a favore di Juncker alla presidenza della Commissione. Alcuni sodali del Presidente del Consiglio parlano di “mossa cavouriana” riferendosi agli accordi di Plombières tra Regno di Piemonte e Secondo Impero Francese che portarono all’alleanza tra Torino e Parigi in vista della seconda guerra d’indipendenza.



Occorre, ridimensionare il tutto. I documenti europei vanno letti con cura. Senza dubbio, il Presidente del Consiglio italiano è un abile negoziatore e ha saputo estrarre qualche sorriso e più di una parola benevola ai suoi interlocutori (principalmente al Cancelliere tedesco Angela Merkel); tuttavia, i testi non fanno cenno ad alcuna deroga al Fiscal compact che l’Italia ha approvato con entusiasmo e ratificato in meno di 48 ore. C’è più di un riferimento – è vero – all’urgenza, non solo necessità, di attuare “riforme” e di non fare mancare risorse per le “riforme”. Di quale “riforme”, però, si parla?



In secondo luogo, come spiegato già su queste pagine, per rispondere a questa domanda occorre tenere presente che le riforme “istituzionali” comportano non solo un costo finanziario (per acquisire il consenso dei gruppi che, a torto o ragione, si considerano da esse danneggiate), ma anche un periodo di rallentamento dell’economia (perché tutti i soggetti economici si adattino alle nuove regole). Anche le riforme “economiche” implicano un costo (ancora una volta per ottenere i consensi necessari), ma non portano sempre a un rallentamento dell’economia, oppure, se ciò si verifica, è meno acuto, e meno prolungato, di quello inerente alle riforme istituzionali.

Il malinteso è che mentre i documenti Ue si riferiscono per tutti i 28 (in effetti, il passaggio citato riguarda soprattutto gli Stati membri che hanno aderito all’Unione negli ultimi dieci anni, principalmente quelli dell’Europa centrale e orientale) alle riforme “economiche”, nei commenti di Renzi è parso che ci si riferisse alle riforme “istituzionali” (riassetto del Senato, nuovo Titolo V della Costituzione – peraltro ancora in alto mare). Inoltre, “non fare mancare risorse” alle riforme “economiche” è molto differente da un eventuale scambio politico “riforme istituzionali-flessibilità nell’applicazione dei criteri di convergenza”.

Alla Commissione di Bruxelles, si fa notare che l’Italia ha già avuto “flessibilità” (per le riforme economiche) dato che il “pareggio di bilancio” definito con il Fiscal compact per il 2014 è stato rinviato al 2015 (e c’è chi parla di portarlo al 2016). Ma di riforme economiche – si nota non solo a Bruxelles ma, quel che più conta, al CESifo di Monaco, il trust di cervelli su cui molto conta Angela Mekel – non c’è traccia: siamo il 69esimo dei 189 paesi classificati dalla Banca mondiale in termini della facilità di fare impresa, ci vogliono 1185 giorni (rispetto a una media di 529 per l’insieme dei Paesi Ocse) per risolvere una vertenza civile su un contratto e farla applicare, abbiamo costi energetici elevati (che potrebbero essere ridotti revisionando i sussidi alle rinnovabili), la differenza tra costo del lavoro e salario netto in busta paga è la più alta in Europa. La litania è lunga. E nota.

Non è certo questa la sede per ripeterla. Tuttavia, delle attese riforme economiche si sono visti unicamente gli 80 euro in busta paga (di alcune categorie), ottenuti grazie a un aumento della tassazione e una decurtazione delle pensioni in essere. In Europa, lo sanno. E lo dicono a Renzi, per ora con il sorriso, che la “luna di miele” è terminata. Ove ci sia mai stata. Domani, ossia tra poche settimane, potranno chiedere una pesante correzione dei conti autunnale e una strategia per la riduzione del debito. Ciò porterebbe traumi nella maggioranza parlamentare.