Il dibattito politico sviluppatosi in questi mesi sia all’interno delle aule parlamentari, sia all’interno del governo nel confronto con le associazioni di categoria circa la necessità di una significativa riduzione del cuneo fiscale, del prelievo fiscale e contributivo, ha registrato un generale e unanime consenso. Le divergenze manifestate dalle diverse scuole di pensiero sono emerse però a partire dalla fase immediatamente successiva, nelle risposte alla domanda se sia più opportuno e conveniente per il Paese, cioè per la crescita e per l’occupazione, sostenere i consumi oppure fare leva sulla la base produttiva del nostro Paese.



Con il decreto legge cosiddetto “bonus Irpef”, il governo Renzi ha, infatti, caricato la leva dei consumi. È stato sostenuto da più parti che l’Italia ha due malattie: una malattia cronica, che si cura con le riforme strutturali, e una malattia acuta, che invece ha bisogno di superare affrontando la contrazione della domanda e il profondo disagio sociale, quella che un tempo veniva chiamata la «crisi della quarta settimana». È proprio a questo livello che è intervenuto il governo.



Un governo sensibile a questi temi economici e sociali non potrà però dimenticare che vi sono anche altre questioni sociali che devono essere affrontate in una fase successiva e altre categorie che devono ricevere risposte adeguate, si pensi ai pensionati, a una parte della fascia del lavoro autonomo, infine ai nuclei familiari che necessitano di una politica fiscale a misura di famiglia con l’introduzione del quoziente familiare.

Nel decreto, approvato al Senato in prima lettura, vi è anche però un segnale, pur se più contenuto, sul versante dell’offerta, con la previsione di una riduzione del 10% dell’Irap, una misura significativa per continuare nella direzione di marcia intrapresa, ma non certamente strutturale per il rilancio della nostra impresa. Anche la questione delle coperture finanziarie ha destato oggettivamente più di una perplessità e comunque sarà oggetto di un supplemento di riflessione di un ulteriore riesame. Ad esempio, tra le misure che presentano profili di criticità, si segnala la quella che dispone un innalzamento dal 20% al 26% dell’aliquota sui redditi di natura finanziaria che – si dice – vengono allineati alla media europea; inoltre, si prevede anche la rinegoziazione, in una certa misura, dei contratti dei beni e servizi della Pubblica amministrazione.



Per confermare i segnali di fine recessione e di avvio deciso della ripresa c’è quindi bisogno di misure di natura economica in grado di agire, tanto sul lato della domanda quanto su quello dell’offerta. Se il governo intercetterà queste istanze, con il contributo della maggioranza parlamentare, predisponendo misure incisive, la ripresa potrà essere più rapida di quanto previsto, all’interno di uno scenario di stabilità riformatrice. Tale scenario, infatti, è stato confermato dal risultato delle elezioni europee del 25 maggio con la vittoria di Renzi, segno di fiducia e di speranza nel mercato sia dei consumatori, sia degli imprenditori, per una politica responsabile contro vecchie e nuove demagogie.

Proprio per questa ripresa di fiducia non si debbono pertanto commettere errori, non bisogna ritardare il processo avviato delle riforme. Il consenso accordato a tale decreto è sostenuto anche dal fatto che il governo ha dichiarato che è allo studio un nuovo pacchetto di sostegno alle imprese, che si pone quale intervento integrativo delle misure adottate nel decreto medesimo. Gli imprenditori ormai da tempo chiedono al governo interventi per gli investimenti, l’innovazione e la patrimonializzazione, e l’esecutivo ha reso noto che nei prossimi giorni interverrà proprio sul versante dell’incremento dell’assetto patrimoniale dell’impresa, con diversi tipi di interventi, tra cui anche un diverso trattamento fiscale degli utili reinvestiti nell’impresa.

Accanto, infatti, al taglio della bolletta energetica per le piccole e medie imprese e alle agevolazioni fiscali sugli investimenti per beni strumentali, è urgente lavorare ancora molto sul versante della patrimonializzazione delle nostre imprese. Le ragioni che assistono tale urgenza sono segnalate da un divario crescente di patrimonializzazione tra le nostre imprese (il cui grado è sceso rispetto alla media europea) e quella tedesche, in particolare nel settore manifatturiero. Secondo i dati della Banca d’Italia, infatti, per essere in linea con la media europea occorrerebbe un aumento complessivo della patrimonializzazione delle imprese italiane di almeno 200 miliardi e una pari riduzione dei debiti per liberare le imprese da un’eccessiva dipendenza dal credito bancario, che oggi è pari a circa il 65%.

Con il provvedimento approvato è la terza volta che si interviene sui debiti commerciali della Pubblica amministrazione, che si attestano oggi a un valore complessivo tra i 60 e i 75 miliardi, rispetto ai 90 del 2013. Accanto a questo si è registrata anche una diminuzione dei tempi medi che passano da 190 a 180 giorni, e parimenti una minore incidenza dei debiti commerciali della pubblica amministrazione sul Pil, che rimane comunque una delle più alte in Europa.

Pertanto, questo decreto legge si può definire il primo tempo di una partita difficile, ma non impossibile da vincere. Ciò che ci si attende è che il governo sostenga, oltre i consumi, anche l’offerta, ovvero la base produttiva e questo sarà un banco di prova ineludibile e prioritario per continuare nel percorso che si sta avviando al fine di traguardare la crescita e lo sviluppo economico e produttivo del nostro Paese.