Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e i suoi collaboratori hanno santa ragione nel sostenere che le attuali regole (anche costituzionali) e, soprattutto, le loro incrostazioni sono un fardello al potenziale di crescita dell’Italia (stimato ad appena l’1,3% l’anno). Riformatori e riformisti lo sostengono da oltre quarant’anni. Basti pensare che la “Commissione Bozzi” per la riforma costituzionale venne insediata il 14 aprile 1983, nonché ricordare il sogno della “grande riforma” di craxiana memoria.
Tuttavia, tanto il pensiero economico quanto le statistiche ci dicono che c’è un time lag preciso tra il completamento normativo (e regolamentare) delle riforme e i loro effetti economici positivi. Tale time lag varia a seconda dei paesi, delle società e dei contesti. Può durare anche alcuni anni nel corso dei quali, invece, il dibattito sulle riforme (e le resistenze a esse) hanno implicazioni negative sul ciclo economico.
Per quanto riguarda il pensiero economico prendiamo due testi “di culto”, il primo della “sinistra riformista” e il secondo dei “riformatori liberali”. Il secondo ha ottenuto il Nobel per l’Economia. Il primo lo avrebbe meritato. Circa due anni fa, su questa testata, si è ricordato “Come fare passare le riforme” di Albert Hirschmann (scritto negli anni Sessanta ma pubblicato in italiano da Il Mulino solo nel 1990); il lavoro dimostra, sulla base di ragionamenti teorici e di casi concreti attinenti ai paesi di cultura latina, che le riforme necessitano anni di vacche grasse, in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie che a torto o a ragione si considerano danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi). Suggerisce, quindi, che i reform mongers (coloro che vogliono le riforme) si muovano con cautela, zitti zitti piano piano senza fare alcun rumore, come nel ben noto terzetto del secondo atto del “Il Barbiere di Siviglia”.
Sull’altra sponda, il Premio Nobel Douglass North, un liberale di razza, in “Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia”, pure esso edito da Il Mulino nel 1990 in traduzione italiana (ma uscito soltanto pochi anni prima in versione originale): all’approssimarsi di “nuove regole”, non necessariamente esplicite ma cogenti, le quelle “vecchie” (prassi consolidate) si irrigidiscono e, di conseguenza, occorre creare una coalizione di riformisti silenziosi (che riescano a operare senza farsene accorgere) se si vuole evitare il rallentamento dell’economia. North si basa sulla storia europea – dalla scoperta dell’America al “miracolo economico” degli anni Sessanta.
A conclusioni analoghe era giunto il liberista Mancur Olson in “The Logic of Collective Action: Public Goods and the Theory of Groups” pubblicato negli Usa nel 1965 ma tradotto in italiano da Feltrineli nel 1990. La bassa crescita economica dell’Italia e le severe restrizioni finanziarie sono state addotte (dai Governi dell’epoca – dalla primavera 1996 a quella 2001 e dalla primavera 2006 a quella del 2008) come ragioni per posporre riforme o fare marcia indietro su alcune di quelle annunciate (il caso più evidente è la previdenza). Non so se a Palazzo Chigi o al Nazareno abbiano letto Hirschmann, North e Olson.
Evidenza empirica del fenomeno si ha in una vasta letteratura. Dal monumentale “The normal developing economy”, curato da Hollis Chenery (uno degli inventori della Cassa per il Mezzogiorno) quando, negli anni Settanta e Ottanta, era Vice Presidente della Banca mondiale e disponeva di duecento economisti, ai lavori più recenti sul rallentamento, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, dell’economia europea. È stato in gran misura attribuito all’introduzione della Information and Communication Technology (Ict), una General Purpose Technology (tecnologia a usi plurimi come l’elettricità) che ha comportato una complessa fase di aggiustamento e di addestramento prima di potere dare i suoi frutti.
Il fenomeno deve essere tenuto presente in questi mesi in cui si stanno approntando riforme istituzionali mentre l’Europa (e l’Italia) sembrano sull’orlo di una deflazione – tanto che la Banca centrale europea (Bce) ha dovuto adottare misure “non convenzionali” per stimolare l’economia. Ciò non vuole dire accantonare le riforme istituzionali ma farle precedere da riforme economiche, o almeno accompagnarle con strategia, programmi e provvedimenti che diano slancio all’economia, quali le liberalizzazioni dei mercati e le privatizzazioni.
C’è il rischio che si rafforzino le tendenze “anti-istituzioni” e di un ulteriore indebolimento economico e sociale di un’Italia in cui, dal 2008, il numero di coloro che cercano lavoro senza trovarlo è aumentato di un milione di uomini e di donne, il reddito pro-capite si è contratto del 10% e la produzione industriale è crollata del 25%. Ciò renderebbe ancora più ardua l’approvazione e l’attuazione delle riforme istituzionali.