Ci mancava il soffio gelido di Espirito Santo, la banca dell’omonima famiglia portoghese che ieri ha seminato il terrore sui mercati di tutto il mondo dopo che la holding, domiciliata in Lussemburgo, ha annunciato di non aver i mezzi per ripagare il bond di una controllata. Nel giro di poche ore il comparto del credito ha perso posizioni un po’ ovunque. Non solo: la liquidità è diventata all’improvviso merce rara sugli stessi mercati europei che hanno finanziato nella prima parte del 2014 aumenti di capitale per 43 miliardi (contro i 17 nel 2013). A Piazza Affari, giudicata fino a un paio di settimane fa una sorta di terra promessa per le nuove quotazioni, la brianzola Rottapharm ha dovuto ritirare l’Ipo per l’improvvisa debolezza dei listini. Tutto per la crisi di un istituto di dimensioni regionali, finora noto più per il testimonial pubblicitario, Cristiano Ronaldo, che non per le evoluzioni sui listini.
Intanto, nella serata di mercoledì, i banchieri che hanno accettato di disertare (non a torto) la visione della semifinale della World Cup Argentina-Olanda per assistere alla lectio londinese di Mario Draghi in onore di Tommaso Padoa Schioppa, hanno potuto assistere in anteprima all’ultima sfida del presidente della Bce, non a caso lanciata nella stessa sala che due anni fa lo vide proclamare che “la Bce avrebbe fatto il possibile per salvare l’euro e vedrete che sarà abbastanza”. Stavolta l’impegno è meno roboante ma forse ancor più impegnativo: l’Europa, ha detto Draghi, ha bisogno di un Reform compact. Ovvero i paesi dell’Eurozona devono impegnarsi esplicitamente con garanzie da offrire ai partner per portare a compimento in breve termine le riforme essenziali, a partire dalle pensioni e dal costo del lavoro. Altrimenti, ha detto Draghi, sarà difficile sviluppare una politica comune di crescita: troppo grande è il divario tra la Finlandia, al terzo posto nel mondo per competitività, e la Grecia, che figura al numero 91.
Tempo ce n’è, ma non troppo. Un po’ perché la congiuntura, lungi dal migliorare, peggiora. Arretra la produzione industriale in Italia e in Francia, la disoccupazione no. In cambio rallenta la locomotiva tedesca. Nonostante le speranze suscitate dagli interventi della Bce dello scorso 5 giugno, l’Europa sembra condannata a una lenta asfissia. Non saranno i primi due Tltro in programma a settembre e dicembre (400 miliardi in tutto) a restituire smalto alla ripresa.
Sul piano politico, con buona pace del dinamismo del premier Matteo Renzi, si deve prender atto che il modello tedesco per l’Eurozona non è affatto cambiato, come evidenzia il membro belga della Bce, Peter Praet, che ha notato che siamo allo stesso punto di un anno fa. A confermarlo è la decisione di non inserire tra i prestiti della Bce i mutui immobiliari, a differenza di quanto fatto (con fin eccessivo successo) dalla Bank of England. Il motivo? Scongiurare il rischio di una bolla immobiliare in Germania temuta, probabilmente a torto, dalla Bundesbank. E a poco conta obiettare che un’iniezione di capitali sul mercato italiano (-20% dal 2009), spagnolo (-35%) o irlandese (-50%) non sarebbe stato poi così fuori luogo.
A 40 giorni di distanza dalle grandi manovre della Bce, l’euro è al punto di partenza mentre i famosi mille miliardi proclamati da Mario Draghi, al netto dei rimborsi dei prestiti precedenti, servono appena a riportare la base monetaria al livello di due anni fa. Nel frattempo, a sottolineare che il credit crunch dipende più dall’assenza di domanda che non dalla scarsità di liquidi, le banche italiane non solo continuano nel deleveraging, ma restituiscono i fondi a Francoforte.
Il tempo scorre, ed è già tempo di exit strategy. La Federal Reserve ha annunciato che a ottobre, massimo dicembre, sarà esaurito il tapering ovvero si fermeranno gli acquisti di bond e altri titoli sul mercato. Sei mesi dopo (o al massimo nel prossimo giugno) la banca centrale americana potrebbe avviare una manovra per avvicinare il livello dei tassi a condizioni normali. E per l’Italia potrebbe finire la marcia di riduzione degli spread che, per ora, dovrebbe proseguire garantendo un recupero degli utili.
Bisogna sfruttare questi mesi, insomma. Con l’obiettivo delle riforme strutturali vere e non solo enunciate. E senza confidare troppo nelle alchimie della politica monetaria. Come ha notato Daniel Alpert, economista della scuola di Hyman Minsky, il Qe vene interrotto non perché ha raggiunto i sui obiettivi ma perché, al contrario, non è servito a granché salvo favorire la corsa delle Borse e degli immobili di lusso a vantaggio di ricchi che sono diventati in questi anni sempre più ricchi. Per uscire dalla recessione occorre andare alle sue radici: la sovrapproduzione che affligge il mondo o, se preferite, la scarsità di domanda.
Come fare? Un consiglio, a sorpresa, arriva da Larry Page, uno dei fondatori di Google: bisogna lavorare tutti di meno. Per la verità, ci aveva pensato già John Maynard Keynes negli anni Trenta.