La “memorial lecture in honour of Tommaso Padoa Schioppa” pronunciata da Mario Draghi, Presidente della Bce, in quel di Londra il 9 luglio scorso è un documento destinato a rimanere nella storia. In questa bronzea lettura abbiamo la definizione più compiuta del modello intellettuale che guida la politica economica europea, che dovremmo profondamente riformare (Renzi ha un bel daffare). Ciò che fa significativamente la differenza è che questa sorta di definizione contiene in sé un’intima contraddizione, perché a pronunciarla è colui che viene definito la spina nel fianco dell’egemonia teutonica in Europa. Le conclusioni sono perentorie: Draghi auspica, in tale lettura, che il modo in cui si deve giungere al compimento delle riforme strutturali continuamente invocate deve essere lo stesso che ha guidato l’elaborazione della “fiscal governance” ossia del Fiscal compact che noi italiani abbiamo addirittura inserito nella Costituzione.



Draghi, seguendo quella che è già stata una deliberazione della Commissione che interpreta la volontà tedesca, auspica che i criteri di convergenza sui temi della riforma del mercato del lavoro, della Pubblica amministrazione, della concorrenza, ecc. si trasformino in criteri “strutturali” che debbono divenire per tutti i paesi appartenenti alla zona euro strettamente vincolanti. Draghi, al termine della sua lecture, davanti a spettatori che, come sappiamo, sono affetti da una inquietante lobotomizzazione cognitiva, si prende il gusto di citare Jean Bodin, autore che la maggioranza degli astanti non avrà mai né letto, né sentito nominare (a differenza di lui, educato dai gesuiti), per avvertire che la sovranità, così come definita da Jean Bodin, appunto, ossia diritto inalienabile dello Stato nazionale, proprio in Europa dobbiamo dimenticarcela.



Quello che non si dice nella lecture e nelle sue conclusioni è a chi questa sovranità oggi è delegata, se non che occorre rispondere a una sorta di indefinita “sovranity together” (sovranità comune), “so as to responde to their citizens needs” (così da rispondere ai bisogni dei propri cittadini). E poi ci si prendeva anche il gusto di dire “two needs today are growth and job creation” (le due necessità di oggi sono crescita e creazione di lavoro). Ma qui casca l’asino perché ciò che rimane indimostrabile è come si possa creare sviluppo e occupazione con l’applicazione su larga scala di liberalizzazioni del lavoro, che hanno sottratto e non creato occupazione, abbassando i livelli salariali e, d’altro canto, impedendo ogni fuoriuscita dalla bronzea legge di una concorrenza perfetta che di fatto ha ucciso ogni tendenza agli investimenti e ha fatto aumentare enormemente i prezzi dell’energia, tanto è vero che, addirittura nel liberistico Regno Unito, abbiamo riscontrato per la prima volta, dopo la Seconda guerra mondiale, estesi casi di povertà energetica, ossia di famiglie che non possono pagare la bolletta.



Questa è la questione. Draghi cade nell’illusione monetarista che la creazione di liquidità, da sola, possa creare occupazione, tenendo fisso il tasso di cambio e impedendo, attraverso ogni svalutazione competitiva, qualsiasi possibile ricorso a politiche economiche alternative. Sappiamo bene che tutte le svalutazioni competitive erano e sono un’illusione, ma quello che io contesto della tesi di Draghi è che anche una politica economica di creazione di moneta, moneta unica, che giunge in aree territoriali e quasi statali (ormai) non uniche ma profondamente diverse possa risolvere la situazione.

Anche Draghi, così come lo era Padoa Schioppa, è ben consapevole di questa difficoltà. Ma, come Padoa Schioppa, risponde in modo sbagliato. L’ex ministro pensava che il free trade unito alla libertà totale del movimento dei capitali non poteva comporsi con un tasso fisso di cambio e nel contempo consentire delle politiche monetarie indipendenti su scala nazionale. Lo sbilanciamento macroeconomico sarebbe stato evidente. Come si doveva rispondere a ciò? Non eliminando le diversità strutturali di produttività, di attrattività territoriale, di livelli educativi, ecc., e quindi impegnandosi prima nell’unione politica e socialmente strutturale dell’Europa. Sarebbe stato un processo troppo lungo, e la voracità immediata delle banche d’affari non sarebbe stata soddisfatta.

Come Padoa Schioppa Draghi crede che una “community level governance” (una governance a livello comunitario) possa risolvere la situazione se non si ferma solo alla politica fiscale o all’unione bancaria, ma se si spinge sino alle riforme strutturali, ben prima che qualsivoglia unificazione socialmente strutturale sia raggiunta. Questa lecture è significativa non tanto per la sua ampiezza culturale, per le citazioni di Bodin e di altri autori non comuni nel lessico bancario, ma perché disvela esattamente qual è l’ordito culturale tanto di Draghi quanto del compianto Padoa Schioppa. E quest’ordito culturale non è affatto quello del liberismo, come credono in molti, e neanche del liberalismo. Il meccanismo culturale che si è affermato in Europa è la cosa più anti-crociana che sia mai esistita, ossia un pensiero politico economico che nega la distinzione tra liberismo e liberalismo e che è quindi l’essenza stessa di un pensiero anti-liberale che si è surrettiziamente diffuso negli ultimi anni grazie all’egemonia culturale che si è affermata in Europa, giorno dopo giorno, da parte dei seguaci tedeschi dell’ordoliberalismo.

Una teoria della politica economica che nessuno conosce ormai, perché nessuno legge più il tedesco ma solo la lingua delle moltitudini e non della cultura. Bisogna fare un po’ di storia del pensiero politico-economico. L’ordoliberalismo ha i suoi profeti giuridico-economici in Walter Eucken, Franz Bohm e Hans Grossmann-Doerth e trova la sua più completa esplicazione nel libro di Eucken, pubblicato a Berlino nel 1941, dal titolo “Die Grundlage der nationalökonomie”, che rimane la Bibbia dell’ordoliberalismo teutonico, anche oggi. Va detto subito, per evitare stupide e infamanti osservazioni, che i seguaci dell’ordoliberalismo erano tutti cristiani ispirati, antinazisti e che vissero tutti in esilio, alcuni in patria, rischiando ogni giorno la vita, altri all’estero, dalla Svizzera alla Turchia. Quindi non diciamo le solite sciocchezze. Il problema è che questi studiosi partecipano al grande dibattito sull’economia politica che vede opposti alla scuola storica tedesca di Schomoller i seguaci della scuola austrica di Menger, che rifiutavano la ricerca della singolarità dell’evento per seguire appunto Karl Menger, che ricercava appunto un approccio nomotetico nel corso del grande Methodenstreit che caratterizza il mondo tedesco negli anni Venti e Trenta.

L’ordoliberalismo nasce come reazione al disordine di Weimar. I seguaci di quella scuola hanno la convinzione che nessuna politica economica fondata sul libero mercato potrà avere successo e quindi non provocare inflazione se non si tradurrà in “ordini economici”, ossia in precetti costituzionali che fissino indelebilmente e per sempre la configurazione della politica economica della nazione. Lo Stato non deve fissare i prezzi, ma scrivere invece nella sua Costituzione che i prezzi non devono mai essere fissati ma che il libero mercato è il dogma assoluto che consente la libertà economica e degli individui. Una sorta di totalitarismo di mercato. Esso ha tra i suoi fondamenti un “ordine economico” che sancisce il divieto di debito pubblico e quindi in tal modo spinge a ricercare la libera concorrenza grazie alla produttività del lavoro, ponendo così le basi che, qualora quest’ultima non si realizzi, si raggiunga l’assenza di debito pubblico attraverso l’abbassamento costante dei salari, creando un mondo di poveri.

Eucken accusava i teorici del lassez faire di non aver fissato le regole del gioco trasformandolo appunto in una Ordnungspolitik compatibile con il Reichstaat. Ecco quindi le “forme” della politica economica piuttosto che la politica economica. C’è da aver veramente paura. Naturalmente per essere davvero obiettivi va ricordato che l’ordoliberalismo aveva anche un altro coté, sempre proveniente dalla scuola di Friburgo, ma con una versione assai più sociologica e meno annichilente la libertà della storia. Mi riferisco ad Alexander Rustow e al grande Wilhelm Roepke, che sostituiscono il costituzionalismo giuridico economico con la sociologia e la filosofia critica della storia.

Il grande Roepke, che negli anni Trenta è uno dei più grandi politici economici del mondo, si era trasferito da antinazista prima in Turchia e poi in Svizzera e fu soprattutto a lui che guardò Ludwig Erhard, il grande ministro dell’Economia della Germania del secondo dopoguerra, per realizzare ciò che definiva l’economia sociale di mercato. Essa altro non era che ciò che rimaneva della scuola di Friburgo, e delle sue idee, e quindi dell’ordoliberismo trasformato in un ordine irenico per la Germania occidentale del secondo dopoguerra. Infatti, Erhard, con un altro consigliere importantissimo, il sociologo economico Müller Armack, crea un sistema di sicurezza sociale che affiancherà la competizione di mercato.

L’effetto controintuitivo dell’ordoliberismo fu quindi, nel secondo dopoguerra di una Germania che si ricostruiva trionfalmente con il denaro americano e la disciplina eroica del suo popolo, l’enfatizzazione del principio di sussidiarietà, desunto dalla Dottrina sociale cattolica: un’etica più che un ordine, quindi, che doveva coordinare le iniziative non solo degli individui e dello Stato, ma anche dei gruppi comunitari. Non è un caso che i fanatici alla Hayek levarono alte grida contro il corrompimento dell’ordoliberismo, sconfessandone la versione economica e sociologica.

Naturalmente la storia ha le sue arguzie, che si disvelano anche nella lettura di Mario Draghi che abbiamo prima citato. Qual è l’astuzia? È un’astuzia che ha una conseguenza terrificante. I tedeschi hanno ottenuto per loro la conclusione che faceva arrabbiare Hayek, ossia la comunità e la sussidiarietà, per carità sempre producendo come matti, disciplinatamente. A tutti gli altri surrettiziamente hanno dato in pasto l’ordoliberalismo, che si è benissimo adattato come teoria costituzionale tecnocratica al liberismo di marca anglosassone di cui Draghi e Padoa Schioppa erano profeti. Ma in realtà erano profeti solo del terribile ordoliberalismo dei cavalieri teutonici.