Il debito pubblico italiano tocca il suo nuovo record raggiungendo quota 2.166,3 miliardi di euro, con un aumento che nel mese di maggio è stato pari a 20 miliardi. E’ quanto risulta dall’ultimo bollettino della Banca d’Italia, secondo cui “l’incremento riflette per 5,5 miliardi il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche e per 14,9 miliardi l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (pari a fine maggio a 92,3 miliardi; 62,4 a maggio 2013)”. Dai dati Istat risulta invece che l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8% al 7,9%, colpendo 303mila famiglie e 1 milione e 206mila persone in più rispetto all’anno precedente. Ne abbiamo parlato con il professor Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison.
Alla luce dei dati di Istat e Bankitalia, l’Italia rischia di finire come la Grecia?
Finire come Atene è assolutamente impossibile perché tra l’Italia e la Grecia c’è la stessa differenza che c’è tra la Terra e la Luna. L’Italia è un Paese industriale, mentre la Grecia non produce quasi nulla. Noi abbiamo un’economia molto forte, anche nei servizi, con un settore logistica e un sistema bancario e assicurativo che la Grecia neanche si immagina. Atene al massimo può contare sul turismo, ma non su un’economia moderna e avanzata come la nostra.
Quali sono le differenze tra Italia e Grecia per quanto riguarda i conti pubblici?
I conti pubblici della Grecia sono molto diversi dai nostri, perché prima di questa crisi il debito pubblico di Atene era per l’85% finanziato da stranieri. Il rapporto tra debito pubblico greco in mani straniere e Pil rasentava il 100%: in poche parole senza il finanziamento degli stranieri la Grecia non avrebbe un debito pubblico che sta in piedi. Al contrario il debito pubblico finanziato da stranieri dell’Italia è pari al 30%. La restante parte è in mano a residenti, e in particolare al sistema bancario e assicurativo oltre che a cittadini che hanno investito in titoli di Stato per circa 200 miliardi di euro.
Perché il debito pubblico dell’Italia continua a lievitare?
In 21 degli ultimi 22 anni l’Italia ha registrato un avanzo primario. Nel periodo 2011-2012 lo spread dell’Italia ha però ingigantito ulteriormente la dimensione assoluta degli interessi che dobbiamo pagare. L’Italia paga interessi per 80 miliardi di euro, pur avendo un debito elevato più o meno come quello della Germania, che paga soltanto 50 miliardi di interessi.
Come si spiega questo utilizzo di due pesi e due misure?
L’Italia sconta la percezione di una minore affidabilità del nostro debito sovrano, anche se nella realtà non è così proprio perché come dicevo solo il 30% del debito pubblico italiano è finanziato da non residenti ed è una delle percentuali più basse tra i debiti pubblici dei Paesi avanzati. La maggior parte degli Stati avanzati sono addirittura in deficit primario, e ciò significa che non sono in grado di pagare neanche un centesimo di interessi con dei “soldi veri”.
A quanto ammonta esattamente l’avanzo primario dell’Italia?
L’Italia ha un avanzo primario pari a circa il 2,3% del Pil, a fronte di interessi pari al 5%. Ciò significa che il nostro Paese paga quasi la metà dei suoi interessi sotto forma di “soldi veri”. Dal momento che il debito pubblico italiano è finanziato da non residenti per il 30%, significa che i non residenti italiani hanno addirittura la soddisfazione di essere pagati interamente con “soldi veri”, anziché emettendo nuovo debito.
Come valuta invece il dato Istat secondo cui un italiano su dieci è in uno stato di povertà assoluta?
Questo è il dato che mi preoccupa di più. Mi domando però fino a che punto sia veritiero, in quanto gran parte della povertà assoluta è nel Mezzogiorno, la cui economia sommersa va di gran lunga al di là dei dati ufficiali sul Pil. Ma l’aspetto da tenere in seria considerazione è soprattutto il fatto che tre o quattro anni fa i cittadini italiani in stato di povertà assoluta erano molti di meno di oggi. La crisi economica ha aumentato enormemente il numero di persone che sono in uno stato di disagio sotto il profilo economico e sociale. Ciò non solo nel Sud, ma anche in zone del Centro e del Nord colpite dalla crisi della manifattura.
(Pietro Vernizzi)