Flessibilità? Non se ne parla neppure, lo ha detto anche Mario Draghi. Nomine? Vedremo, ma più che no che sì per Federica Mogherini alla politica estera e di sicurezza, perché avversata da un folto schieramento che viene da est. Il cammino di Matteo Renzi nell’Unione europea è peggio di una scalata in bici fino a cima Coppi. E’ vero, la partita per il commissario non è chiusa, al contrario di quella per allentare il patto di stabilità, ma le cose non si mettono bene. Dopo i sorrisi e le pacche sulle spalle, adesso si capisce chiaramente che non è bastato a Renzi stravincere con il 41% e diventare il politico più votato d’Europa. Il suo difetto è di essere italiano e l’Italia conta pochissimo, senza trascurare che fa parte del gruppo socialista mentre il parlamento europeo è in mano ai popolari. Lo ha dimostrato ieri il voto per Jean-Claude Juncker: criticato, anzi bistrattato alla vigilia, contestato dai conservatori inglesi, avversato dai populisti e dalla destra lepenista, ha preso 422 voti su 750, cioè la maggioranza assoluta. I rapporti di forza, almeno sul piano istituzionale, sono questi.
L’ex premier lussemburghese si è presentato con un discorso europeista come da tradizione e come da convinzione, perché Juncker crede fino in fondo nella possibilità che l’Unione si rafforzi e si consolidi, cominciando dalle politiche di bilancio per arrivare ai processi decisionali e alla legittimazione popolare delle scelte e del mandato. L’economia al primo posto, naturalmente, viste le notizie allarmanti che arrivano dalla congiuntura: l’industria s’è fermata quasi ovunque, mentre procede ineluttabile la discesa dei prezzi verso quota zero (in alcuni comparti e in alcuni paesi siamo già in zona deflazione). Dunque crescita innanzitutto, anche se la Ue chiude la porta mentre i buoi sono già scappati.
La “prima priorità” ha detto il neo presidente della Commissione davanti al Parlamento europeo, è “rafforzare la “competitività e stimolare gli investimenti” quindi “nei primi tre mesi” Juncker presenterà un “ambizioso pacchetto per lavoro, crescita e investimenti che muoverà fino a 300 miliardi in tre anni” attraverso il modesto bilancio Ue e soprattutto l’intervento della Bei, la Banca europea per gli investimenti dotata di più capitale e, quindi, di mezzi per intervenire. La cifra fa effetto, ma in realtà non è molto, si tratta di 100 miliardi annui su un prodotto lordo di 16.700 miliardi, pari a poco meno dello 0,6 per cento. Quale effetto avrà sulla crescita è incerto, perché dipende da che tipo di investimenti e il moltiplicatore varia da situazione a situazione, certo non sarà in grado di portare l’economia oltre la morta gora attuale, forse riuscirà a evitare una terza ricaduta nella Grande Recessione.
Non solo. Juncker segue un modello che ha dimostrato di non funzionare: vuole comprare canne da pesca anziché insegnare a pescare. Fuor di metafora, è vero che l’Unione europea soffre di carenza della domanda aggregata che è fatta di consumi e di investimenti. Ma non tirano i consumi individuali e gli investimenti privati cioè quelli che riguardano la gran parte dell’economia, nonostante la Banca centrale europea abbia irrorato le banche di liquidità.
Il cavallo non beve, insomma, eppure non manca l’acqua nell’abbeveratoio. Draghi ha annunciato nuove iniezioni che però debbono scendere verso le famiglie e le imprese, insomma una sorta di quantitative easing all’europea; mentre i tassi di interesse resteranno piatti a lungo. Basterà? Molti ne dubitano. Le prospettive, dunque, non sono affatto rosee anche perché non tira più come prima nemmeno il motore delle esportazioni che negli ultimi due anni aveva compensato la debolezza del mercato interno.
La via maestra non è passare per investimenti pubblici. Intanto, per risultare davvero efficaci dovrebbero essere molti, ma molti di più. Inoltre, se il problema è far bere il cavallo, cioè rimettere in moto l’accumulazione privata, allora quel che serve è ridurre le tasse che nella Ue sono ancora mediamente troppo alte soprattutto sul lavoro e sgonfiare una moneta unica nettamente sopravalutata. Sulle imposte la commissione non ha alcun potere, può solo dare consigli; lo stesso vale per l’euro la cui quotazione è nelle mani della politica monetaria, cioè della Bce.
Juncker insomma è disarmato, può fare da onesto mediatore, può semmai tentare di ridurre le divergenze tra i governi che durante la gestione Barroso hanno ripreso in mano pienamente la loro sovranità, alla faccia di tutte le polemiche e le contestazioni sullo strapotere di Bruxelles. Le due armi fondamentali degli stati, cioè le tasse e la sicurezza, sono oggi più che mai nelle mani dei governi nazionali i quali le usano per i propri interessi e non per quelli comuni. Certo, ci sono paesi come l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia che non sono in grado di difendersi adeguatamente, ma questo è colpa della loro debolezza prima ancora che dell’egoismo dei forti. La burocrazia di Bruxelles non può farci niente.
Lo dimostra, del resto, anche la querelle sulla Mogherini e la battaglia sulla nomina dei commissari. La ministro degli esteri italiana non è una figura carismatica né, tanto meno, conosciuta in Europa, ma soprattutto viene identificata con una politica italiana ritenuta dai paesi dell’est troppo amica della Russia. Lo stesso potrebbe dirsi della Germania (si pensi solo alla dipendenza dal gas di Mosca), ma Berlino è potente e Roma no, quindi la real politik spinge a penalizzare il perdente. Così stanno le cose; possono essere cambiate, sia chiaro, anzi debbono esserlo; Renzi fa bene a non accettare il fatto compiuto in nessun campo, dalla politica di bilancio a quella estera. Ma rischia di essere velleitario, né più né meno dei suoi predecessori, se non si sbriga a rafforzare con i fatti la posizione dell’Italia.