Questa volta niente slide, solo parole. Sono tante e sono belle parole, scorrono come un fiume in piena, con un accavallarsi di metafore mitologiche e storiche, tecnologiche e alla moda. C’è la generazione Telemaco, efficace e poetica, e c’è il selfie della noia, concessione allo spiritello del tempo. C’è l’evocazione del futuro (i figli ed eredi) e il ripudio del passato (divisioni, sangue e guerre, il secolo breve s’è consumato in Europa). Insomma, c’è tutto quel che si deve nel discorso con il quale Matteo Renzi ha inaugurato il semestre di presidenza italiana, il primo dopo undici anni.



Ha fatto bene il presidente del Consiglio a non ammorbare i parlamentari con un lungo e meticoloso elenco delle cose da fare, anche se non è sfuggito al compitino perché ha distribuito una cartellina con tutti i dettagli. E ha fatto bene a volare alto, concentrando il suo discorso non sull’economia, ma sull’anima. Trovare passione e slancio per uscire dal trantran che porta l’Unione all’inevitabile implosione, è il compito principale e più difficile. Il progetto europeo, per riprendere il proprio cammino, deve recuperare una ragion d’essere cogente come nel passato. Più difficile è dire in che modo e questo Renzi non lo ha detto. Almeno non ancora.



Grande affabulatore, il capo del governo italiano ha usato al massimo la sua facoltà. In patria ha mostrato di essere un decisionista (anche se c’è ancora un fossato tra le parole e le cose, soprattutto sul terreno impervio delle riforme). Sarà in grado di esserlo anche fuori dal cortile di casa? Finora no. Naturalmente aspettiamo, ma le prime mosse compiute si sono rivelate sbagliate, se non proprio degli autogol.

Prendiamo la richiesta di rinviare di un anno il pareggio del bilancio. Sul piano tecnico il parere è negativo, su quello politico bisogna aspettare il prossimo consiglio dei ministri finanziari e la nuova commissione. Ma nessuno crede che Jean-Claude Juncker smentisca i suoi eurocrati. Dunque, un doppio no rappresenta una sconfitta netta che probabilmente poteva essere evitata. La diplomazia europea consiglia sempre di informarsi se ci sono le condizioni favorevoli prima di presentare una petizione del genere. E le condizioni non c’erano prima, né ci sono adesso.



Dal punto di vista degli equilibri parlamentari, i popolari sono i più forti grazie al peso dei democristiani tedeschi, cioè degli uomini di Angela Merkel. In conseguenza di ciò la Germania ha già fatto il pieno dei posti chiave nella struttura burocratica che guida la macchina di Bruxelles. Così stanno le cose, al di là delle parole.

Lo stesso vale per la flessibilità. Anche questa una bella parola, ma quando si va a vedere a che cosa corrisponde, cioè quando si entra nel mondo delle cose, si scopre che il rasoio di Ockman ha tagliato il filo che unisce il dire e il fare. Renzi ha lanciato la sua battaglia per rendere più flessibile per tutti l’interpretazione delle regole. Ciò ha riacceso i sospetti dei conservatori tedeschi. Manfred Weber, capogruppo del Partito popolare europeo, ha messo le mani avanti: “Dobbiamo continuare sulla linea del rigore”. Quanto al primo ministro olandese Mark Rutte ha denunciato la manovra italo-francese per ammorbidire le regole di bilancio, stoppata proprio grazie al suo intervento.

Dunque, il risultato anche in questo caso contraddice le aspettative. Non solo, la flessibilità per tutti non aiuta l’Italia, anzi; semmai fa un regalo a chi è in condizioni migliori delle nostre. Il governo Monti aveva seguito un’altra tattica: concedere più spazio per gli investimenti a chi sta sotto il 3%. Ciò avrebbe mantenuto invariata la regola, tagliando fuori paesi che la violano e hanno persino ottenuto la facoltà di farlo. Alla prova dei fatti, la tattica montiana si è rivelata più astuta, anche se non ha avuto il tempo di portare risultati.

Può darsi che ciò sia frutto di una scarsa abitudine a frequentare i corridoi di Bruxelles, insomma un difetto di esperienza (che si manifesta anche in altri campi molto più domestici), ma, astuzie a parte, la questione di fondo è capire il punto di attacco migliore: chiedere nuove eccezioni per l’Italia o usare il capitale di credibilità e di sacrifici dell’Italia per spingere la Germania a fare i propri compiti a casa? Questo oggi è il punto.

Berlino viene pressata sia dagli Stati Uniti, sia dal Fondo monetario internazionale perché approfitti del basso costo del denaro per investire in infrastrutture, per aprire il mercato interno ancora protetto, per liberalizzare e ripulire le banche che sono una palla al piede per l’intera economia europea. Ecco cosa vuol dire una politica economica coordinata e agire in modo cooperativo nell’ambito dell’Unione. Tuttavia, il forcing americano non trova la stessa energia negli altri paesi europei timorosi di scontentare i tedeschi o perché hanno la coda di paglia come i francesi o perché si sentono in svantaggio come gli italiani.

Certo, la mancata crescita e il gap di competitività dell’economia giustifica la sindrome da partner minore. L’Italia questa volta si trova in una posizione migliore sul piano politico (nessun altro ha preso il 40% e Renzi può dimostrare di aver arginato l’onda populista) non su quello economico. È vero che il deficit pubblico è sotto controllo, in questo stiamo meglio di molti altri, ma il debito continua a salire, si autoalimenta per colpa della mancata crescita e dello stock elevatissimo che costringe a consumare il nuovo Pil prodotto ogni anno per pagare la montagna di interessi passivi.

Dunque, Renzi, passato con il suo veloce carro sotto l’arco di trionfo, adesso deve mostrare i primi risultati concreti. Quel che sta accadendo in Francia (la debolezza di Hollande, la vittoria di Marine Le Pen, l’incriminazione di Sarkozy) può essere un monito e sfatare l’illusione che l’antico asse Parigi-Berlino possa ancora funzionare. Tutti in Europa sono di fronte a problemi nuovi che richiedono idee nuove, anche la Germania. È una carta in più da giocare se alle parole seguono in modo conseguente i fatti.