La notizia è di quelle che meriterebbero la prima pagina dei giornali, ma, si sa, economia e finanza sulla grande stampa si sostanziano unicamente nel calo dello spread, nei rally delle Borse o nell’ennesimo giro di nomine in qualche partecipata (a proposito, avete letto da qualche parte del flop dell’offerta pubblica di sottoscrizione e vendita di azioni Fincantieri, per mano del suo azionista unico Cassa depositi e prestiti? Ben 563 milioni di azioni erano destinate agli investitori istituzionali, i quali tra italiani e internazionali hanno prenotato solo circa 42 milioni di azioni: un successone le privatizzazioni che dovrebbero abbattere lo stock di debito e finanziare la crescita, vero Padoan?). Bene, ve ne parlo io, perché se quanto è in gestazione andrà in porto non solo rischia di cambiare gli equilibri della finanza e del commercio mondiale, ma ci offrirà uno spaccato di quello che potrebbe tramutarsi in un vero scontro globale per l’istituzione di un nuovo ordine mondiale.
La Cina, infatti, punta a creare a Shangai il quartier generale della nuova banca per lo sviluppo dei Brics, di fatto un chiaro attacco alla predominanza del dollaro nel settore delle istituzioni finanziarie legate ai prestiti: la banca sarà controllata da Brasile, Cina, Russia, India e Sudafrica e dovrebbe avere un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari, mentre l’atto istitutivo ufficiale dovrebbe tenersi tra pochi giorni, esattamente al vertice dei capi di Stato dei Brics previsto in Brasile il 15 luglio. Inoltre, nelle intenzioni dei partecipanti ci sarebbe anche la costituzione di un fondo swap di emergenza congiunto da 100 miliardi di dollari per intervenire in caso di crisi finanziarie.
Il ministero delle Relazioni estere brasiliano, per bocca di José Alfredo Graca Lima, ha così definito quanto sta accadendo al Financial Times: «Dal prossimo incontro, i Brics saranno identificati con una banca e con una contingente allocazione di riserve, tutte questioni sul tavolo che saranno approvate». Ovviamente la nuova istituzione, la prima creata e gestita dai Brics, all’inizio sarà troppo piccola per competere con la Banca Mondiale o il Fondo monetario internazionale, ma rappresenterà un segnale chiaro da parte delle economie emergenti ai regolatori Usa di come proprio quelle istituzioni debbano essere rinnovate di fronte a un mondo che cambia rapidamente e a nuove frontiere e latitudini cui fare riferimento.
Inoltre, la nuova banca – almeno nelle intenzioni cinesi – dovrebbe bilanciare e forse spodestare la rivale Asian development bank, ritenuta di fatto troppo sotto influenza statunitense da Pechino. E proprio il veto del Congresso Usa a una maggiore influenza delle economie emergenti all’interno del Fmi avrebbe fatto montare il malcontento tra i Brics, portando a un’accelerazione nella creazione della loro banca, la quale non è soltanto una risposta all’atteggiamento di Washington ma anche un segnale chiaro del fatto che i Brics sono in grado di creare un loro meccanismo autonomo per perseguire obiettivi che non sono in linea con gli interessi degli Usa.
Stando a quanto allo studio, ognuno dei paesi interessati avrà il diritto di nominare una città come sede del quartier generale della nuova istituzione e se il Brasile ha declinato l’opportunità, evitando ogni nomination, gli analisti ritengono sempre più probabile che sarà proprio Shanghai a ospitare la sede della banca. Ognuno dei cinque paesi contribuirà inizialmente con 10 miliardi di dollari, una parte dei quali sarà pagata immediatamente e un’altra sarà di capitale callable, ovvero disponibile solo per venire incontro agli obblighi statutari dell’istituzione. Il capitale totale autorizzato sarà invece di 100 miliardi di dollari, mentre – per fare una comparazione – nel giugno dello scorso anno quello della Banca Mondiale era di 223 miliardi, la gran parte dei quali callable. Inoltre, nonostante statutariamente i cinque paesi dei Brics resteranno sempre e comunque azionisti di maggioranza, non è esclusa in futuro la possibilità di nuove membership nella banca da parte di altre nazioni che ne facciano richiesta: la presidenza sarà a rotazione ogni cinque anni e il primo presidente della banca dovrebbe essere nominato proprio al vertice de capi di Stato dei Brics del 15 luglio prossimo.
Ultimo particolare, per quanto riguarda il fondo di riserva, la Cina contribuirà con 41 miliardi di dollari, la Russia, il Brasile e l’India con 18 miliardi, mentre il Sudafrica con 5 miliardi. Insomma, in un mondo in cui il 38,8% dei pagamenti a livello globale è fatto in dollari e il 33,5% in euro, le nazioni emergenti alzano la testa e la voce ponendo in essere la minaccia maggiore per la credibilità degli Usa come hub mondiale e del dollaro come benchmark: dopo l’accordo Russia-Cina che Gazprom vorrebbe denominare in yuan o rubli, un altro sgarbo che Zio Sam potrebbe questa volta non digerire. Tanto più che la Cina, il cui ruolo a livello commerciale è enorme (nonché quello di detentore di debito Usa), potrebbe davvero voler aumentare la risibile quota dell’1,3% dei pagamenti internazionali fatti in yuan e imporsi come polo alternativo sia agli Usa che a un’Europa che assiste silente e forse non informata di cambiamenti epocali come quelli in atto (da noi si perdono ore e ore a parlare delle presidenze dei gruppi all’Europarlamento).
Ora, ci sono parecchie riflessioni che quanto sta accadendo porta con sé. Prima delle quali è una lettura diversa della megamulta affibbiata dalle autorità Usa a Bnp Paribas per le sue transazioni in dollari verso paesi come Cuba e Iran sulla lista nera di Washington: questo porterà a una sorta di “vendetta” globale contro il dollaro, ovvero spingerà Europa, Cina e Russia a usare altre valute per evitare le sanzioni americane? Sarà forse giunto il momento in cui troveranno attuazione pratica le parole d’accusa mosse nel 2012 da un alto dirigente della banca inglese Standard Chartered, il quale reagì così a una multa comminata dalla autorità statunitensi: «Voi americani. Chi pensate di essere per dire a noi, al resto del mondo, che non possiamo fare affari con gli iraniani?»? O forse è vero il contrario, cioè che gli Usa sono consci di questo sommovimento a livello globale ma lasciano fare e anzi, incassano denaro e impongono il loro ruolo di gendarme finanziario del mondo comminando multe, forti delle parole di Neal Wolin, un ex Segretario di Stato, il quale disse che «gli Usa sono il posto non evitabile, non rimpiazzabile dove devi essere per fare business. Il che significa che gli Usa possono dire, puoi fare accordi con noi o con X»?
D’altronde, al netto di un’Europa che dorme, uno di grandi player della nuova istituzione – la Russia – è sotto pesante pressione finanziaria e geofinanziaria per la questione ucraina e gli Usa potrebbero tranquillamente usare le sanzioni per indebolire ancora il rublo, far bruciare riserve e contestualmente aumentare la fuga di capitali: Mosca reagirà? La Cina andrà incontro a Vladimir Putin se questi le chiedesse di prendere una posizione netta e drastica contro Washington.
Quanto sta accadendo, poi, getta un’altra luce di interpretazione anche dietro alla vicenda di cui vi ho più volte parlato riguardo alla detenzione di debito Usa da parte del Belgio, ovvero l’utilizzo da parte di qualche istituzione finanziaria o Stato del Belgio come proxy off-shore per acquistare e detenere Treasuries: qualcuno sapeva in anticipo delle mosse dei Brics e della crisi ucraina e fin da ottobre ha creato un cuscinetto contro potenziali svendite “politiche” di debito Usa che mandassero i rendimenti e l’azione della Fed in tilt? Chi, la Fed stessa? La Bce in un tacito accordo di mutua assistenza o per ripagare le riserve in eccesso della Federal Reserve finite alle filiali Usa di banche europee? Chi può dirlo, l’unica certezza è che viviamo tempi molto pericolosi, tempi nei quali gli interessi in campo sono tali da giustificare l’utilizzo di qualsiasi mezzo. Magari mandando segnali chiari: il vertice dei Brics per l’istituzione della loro banca è fissato per il 15 luglio, due giorno dopo la finale dei mondiali. E se per puro caso il Brasile non arrivasse alla finale o peggio la perdesse, scatenando disordini in tutto il Paese e quindi facendo rimandare per motivi di sicurezza e instabilità finanziaria il vertice a dopo l’estate? Magari quando la crisi ucraina e dell’economia russa avrà preso una piega non più gestibile con mezzi ordinari ma soltanto con la presa d’atto di un scontro frontale, con coté di Medio Oriente in fiamme?
Lo so, mi ritenete solo un complottista, ma vi faccio sommessamente notare una cosa: ieri vi ho parlato della situazione russa e del rischio che il crollo del prezzo del petrolio possa diventare il tallone d’Achille della stabilità economica di Mosca. Bene, due giorni fa, il prezzo del petrolio è sceso in un giorno ai minimi da tre settimane su voci – e dico voci – di un ripristino dell’export libico dopo le turbolenze delle ultime settimane.
I ribelli, infatti, avrebbero fatto sapere che come gesto di supporto al nuovo Parlamento sarebbero pronti a far riaprire i terminal petroliferi di Es Sider e Ras Lanuf, i quali da soli gestiscono la metà di tutto l’export del Paese: e chi fiancheggia quei ribelli? E chi ha fatto giungere quella voce alla Reuters, facendo precipitare sulla base di un mero rumors da parte di guerriglieri o terroristi il prezzo del petrolio attorno ai 111 dollari al barile da oltre 115,5 in un solo giorno? Un segnale molto chiaro e simbolico, visto che 115 dollari al barile è proprio il livello di break-even fiscale necessario alla Russia per non intaccare la stabilità della bilancia dei conti pubblici. Abbiamo tempi pericolosi davanti a noi.