Il discorso di Matteo Renzi a Strasburgo era politicamente ambizioso e ispiratore. Una rottura con la litania degli europeisti post-guerra – il selfie renziano della “noia – che apre una nuova visione e a nuove generazioni di europeisti non compromessi con il passato. Tanto è vero che sia il falco tedesco del Ppe, Manfred Weber, sia l’altro falco finanziario della Bundesbank, Jens Weidmann, hanno reagito con una certa dose di isteria contro l’Italia e il suo premier. Finanche i capogruppo di Alde (liberali) e della Gue (sinistra europea) hanno colto l’importanza delle intenzioni di Renzi a favore della crescita. Peccato che subito dopo è cominciato il tritacarne mediatico – con articoli ostili sulla stampa tedesca e falsamente compiacenti su quella britannica – orchestrato per diluire lo sforzo di Renzi. Quest’ultimo ha replicato con decisione e dignità, ma si è appellato al “Patto di stabilità e crescita” (Psc). È proprio su quest’ultimo aspetto che mi sono sorti dubbi pesanti. Chi e perché ha consigliato Renzi in tal senso? Perché richiamarsi al Psc e non ai trattati dell’Ue?



Innanzitutto va chiarito che il Psc non è un trattato, bensì un accordo quadro di tipo intergovernativo (rule-based framework) – nel caso specifico redatto e adottato solo dai ministri delle Finanze – che per avere cogenza ha preso la forma del regolamento della Commissione n° 1466/97. Il regolamento è una fonte giuridica inferiore al trattato – che infatti richiede la ratifica parlamentare – che entra automaticamente in vigore ma che non può contravvenire le fonti superiori, pena l’illegittimità o addirittura la nullità dell’atto.



Il Psc ha imposto agli Stati membri, con efficacia retroattiva, un obbligo di carattere generale, la parità del bilancio a medio termine. Una regola uguale per tutti gli stati senza attendere i risultati delle valutazioni che la Commissione doveva presentare il 1° gennaio 1998 in materia di convergenza delle politiche fiscali e di bilancio di ciascun Stato membro. Così il Psc (un regolamento!) ha abrogato l’art. 109 J e K del Tue (Maastricht) che stabiliva inequivocabilmente che “la diversità tra gli Stati membri era, non tanto possibile, quanto necessaria”. Non a caso il motto dell’Ue è “uniti nella diversità”.



A partire dal 1° gennaio 1999 gli Stati, nell’ottica del Trattato, avrebbero dovuto infatti operare sotto lo stimolo della concorrenza, cercando ciascuno di valorizzare i propri fattori produttivi, naturali e umani. Perché la concorrenza potesse produrre tali risultati era necessario che non si formassero posizioni dominanti e che i paesi ammessi all’euro potessero aspirare ciascuno a primeggiare sugli altri. L’entrata in vigore del regolamento della Commissione n° 1466/97 (Psc) il 1° luglio 1998 ha stravolto le previsioni del Trattato di Maastricht e finanche quelle del successivo Trattato di Amsterdam (negoziato nel 1997 ed entrato in vigore il 1° maggio 1999).

Come ha notato il professor Giuseppe Guarino (“Saggio di verità 2”), il Trattato avrebbe dovuto prevalere sul regolamento sia quale fonte di rango superiore, sia perché atto successivo. Invece, la Commissione andò imperterrita avanti con il regolamento. Gli Stati tacquero. In quel momento la sorte degli Stati membri, sia dell’Eurozona che dell’Unione, con riflessi anche sugli Usa e sugli altri continenti, fu segnata. Forse questa decisione tecnocratica, con l’assenso tacito dei governi, fu adottata perché la globalizzazione avanzava spedita e c’era bisogno urgente di un’Europa che bilanciasse il pianeta in materia ambientale, sociale ed economica. Peccato che la Commissione sostituì i principi dei Trattati di “crescita armoniosa” e di “crescita sostenibile” con quello del regolamento sulla “crescita vigorosa”. Un cambio di passo che va al di là del significato semantico: si trattava di una scelta di campo ben precisa. Un atto politico, adottato da tecnocrati?

Potrete apprezzare già a questo punto del ragionamento che non si tratta di annoiarvi con un sofisma per legulei ma che la questione è squisitamente politica, anzi arci-politica. Secondo l’eccezionale ricostruzione del professor Guarino, il testo del Psc era stato redatto dall’allora ministro delle Finanze tedesco, Theo Waigel, dopo consultazioni con i suoi omologhi e in particolare con Carlo Azeglio Ciampi, che “era pronto ad accettare qualsiasi richiesta”. Inoltre, si deve ricordare che se fu aggiunta la dimensione “crescita” al patto di stabilità ciò lo si deve all’allora presidente francese Jacques Chirac che, anche con un certo dissenso verso il ministro dell’Economia socialista, Dominique Strauss-Khan, sperava così di assicurare dei “margini” di autonomia alle politiche economiche di sovranità francesi. Tuttavia, il testo del Psc è rimastro volutamente vago sulla definizione degli strumenti per la crescita, mentre su quelli per la stabilità ha fissato le regole che oggi ben conosciamo: pareggio strutturale di bilancio nel medio termine. Infatti, la missione della crescita è affidata dal Tue (Maastricht) agli Stati membri, i quali vi provvedono con le loro politiche economiche, che devono essere autonome e svolgersi in concorrenza.

Invece di richiamare il Psc, che per l’Italia è un cappio al collo, sarebbe stato più utile che Renzi, sul piano politico e anche giuridico, avesse affermato saldamente la volontà dell’Italia perché i testi dei Trattati di Maastricht, Amsterdam e Lisbona fossero effettivamente rispettati e applicati. Perché insistere sul rispetto del Psc nonostante l’evidentissimo contrasto con quanto disponevano gli artt. 102 A, 103 e 104 c) del Tue (Maastricht)?

Non dovrebbe essere sfuggito ai consiglieri giuridici della Presidenza del Consiglio e del Mae che i Trattati, nella parte attinente alla disciplina della moneta, non sono mai entrati in vigore. I valori di riferimento del 3% e del 60% del Pil non hanno mai avuto occasione di applicarsi. La norma da rispettare sarebbe stata comunque l’art. 104 c) Tue. Ma anche questo articolo, alla pari del 104 di Amsterdam e del 126 di Lisbona, non è stato applicato. In sostituzione del Trattato è stato imposto il Psc introdotto dal regolamento 1466/97, al quale hanno fatto seguito i due regolamenti 1055/2005 e 1175/2011 e poi il cosiddetto Fiscal compact. Insomma, la decisione di imporre un regime antidemocratico in Europa attraverso il famigerato regolamento della Commissione n° 1466/97 (Psc) fu presa probabilmente in buona fede e senza troppo ragionare sulle sue conseguenze.

Ma perché dopo 15 anni di disastrose applicazioni di quel principio del Psc si continua a occultare l’evidenza? Perché non riconoscere l’errore e dunque proporre un’uscita di sicurezza valida e legale, cioè la cancellazione per nullità del regolamento 1466/97 e dei suoi successivi derivati legali extra-Trattati? Ciò non significa, come vorrebbe qualcuno, l’uscita dall’euro o peggio, come i referendari che propongono abrogazioni parziali dei testi. Significa, invece, ritornare all’euro che non è mai nato, cioè quello previsto nel Teu. Questo sì che sarebbe coraggio politico. Questo sì che sarebbe il modo di far sparire il selfie della noia. Giocare solo con le suggestioni, caro Renzi, è insufficiente e rischia di trasformarsi in un boomerang sociale e politico.

La risposta è squisitamente politica. In questi ultimi 15 anni il continente europeo è stato devastato dall’abbattimento delle strutture democratiche di governo a favore del governo dei tecnocrati. Una situazione davvero imbarazzante per un’Ue che si propone finanche di avere un’azione esterna per promuovere i diritti, la democrazia e la pace. Che discrepanza con la realtà stessa dell’Ue!

La situazione che oggi viviamo in Europa è ingestibile e irriformabile. Caro Renzi, non è con qualche parolina nel testo del programma di Juncker che si otterrà qualcosa. Non è neppure scannandosi per piazzare i nostri nella prossima tornata di nomine che l’Ue cambierà. L’“antico” professore suggerisce che è arrivato il momento di fare piazza pulita. Si deve rapidamente sostituire tutti coloro che hanno operato nel passato perché hanno occhi foderati dalle antiche esperienze. Tenderebbero a difendere le passate condotte, per ragioni di principio e/o per tutelare posizioni acquisite. Prima sgombereranno il campo, meglio sarà. Aver accettato Juncker, ma anche vedere che il Parlamento europeo ha riconfermato moltissimi brontosauri dell’emiciclo, non è di buon auspicio.

Il Psc (reg. 1466/97 e successivi) ha eliminato la concorrenza tra soggetti omogenei e l’ha sostituita con assegnazione autoritaria di compiti. Ha colpito al “cuore” lo straordinario progetto che i paesi fondatori erano riusciti a mettere a punto e che, dopo quattro decenni e un percorso comportante sacrifici anche elevati, stava per realizzarsi. Qui deve scendere in campo la “generazione Telemaco” non con belle retoriche ma con una determinazione ferocemente politica di smetterla con l’europeismo post-guerra. Ben venga anche la frattura annunciata dal gruppo S&D di non votare Juncker. Non fatevi ammaliare dal vecchiume, andate avanti senza timore.

È il tempo per una nuova Europa, un’Europa politica. L’alternativa è l’inesorabile disgregazione dell’Ue ma anche dei suoi Stati e delle sue società.

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