Niente flessibilità, prima le riforme. La flessibilità, viene ribadito, è già prevista nel Patto di stabilità. L’Ecofin presieduto dall’Italia, annunciato come l’appuntamento decisivo per aprire una nuova fase, si è risolto in uno zero a zero, e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Certo, siamo all’inizio di un impervio cammino: possiamo consolarci così e gli spin doctor del governo lo ripetono a ogni piè sospinto. In ogni caso, finora in concreto non s’è aperto nessuno una spiraglio.
Ma la notizia peggiore non è nemmeno questa. Sui ministri economici riuniti sono cominciate a piovere pietre. Germania e Gran Bretagna, le due economie che sembravano uscite una volta per tutte dalla Grande recessione stanno facendo pericolosi passi indietro. Il motore tedesco s’è bloccato: a maggio la produzione manifatturiera è diminuita e anche le esportazioni vacillano, perché sono in discesa per il terzo mese consecutivo; il rischio è che la domanda estera non riesca a compensare la debolezza di quella interna come invece è accaduto negli anni precedenti. Intanto anche le fabbriche britanniche rallentano: -1,3% a maggio, il calo peggiore in 16 mesi. La Francia va male, l’Italia non si muove, la ripresa spagnola sulla quale era stata battuta tanto la grancassa, è zero virgola. Lo spread torna a salire, le borse scendono.
Sembra un destino, però la leadership politico-burocratica dell’Unione europea è ancora una volta fuori sintonia con la realtà, sulla crescita si sprecano parole mentre le cose sono ben diverse. La minaccia della deflazione si fa sempre più inquietante. I prezzi al consumo anche là dove non si muovono ancora sotto crescita zero, sono in declino. E, “più a lungo il tasso di inflazione resta sotto il livello del 2% (l’obiettivo della Banca centrale europea) più grande diventa la probabilità che la Bce debba imbarcarsi in politiche ancor più coraggiose”, ha scritto Lorenzo Bini Smaghi (già membro del direttorio della Bce) sull’ultimo numero del mensile italiano in lingua inglese “Longitude”. In parole povere, dovremo ancora una volta chiedere aiuto a Mario Draghi se i governi non si impegneranno in serie e tempestive politiche di sostegno della domanda aggregata (investimenti più consumi) nel Vecchio continente.
Così, mentre tutto il dibattito all’Ecofin è ancora sulle riforme di struttura in cambio di maggior moderazione nell’applicare il Patto di stabilità, la realtà si muove pericolosamente verso quel territorio, inesplorato fin dagli anni ‘30 del secolo scorso, in cui scendono insieme produzione, prezzi e reddito. Per un decennio tra il 1975 e il 1985 l’economia mondiale aveva dovuto combattere la stagflazione (cioè stagnazione del Pil e aumento fuori controllo dei prezzi), adesso in Europa rischiamo di dover combattere a lungo la stag-deflazione.
Bassa crescita (se non negativa) più deflazione rendono impossibile ridurre il debito pubblico anche volendo compiere sforzi sovrumani (anzi, ogni sforzo deprime ancor la crescita e gonfia l’indebitamento). È automatico, è l’ineluttabile legge dell’aritmetica. E diventa paradossale se non proprio controproducente la solita rampogna tedesca a non allentare il rigore, magari facendo finta di fare le riforme. Ancora ieri Wolfgang Schaeuble è stato chiarissimo. E alla fine ha portato la maggioranza dell’Ecofin sulle sue posizioni.
I cambiamenti strutturali sono indispensabili sia chiaro, anche se non tutti uguali né tutti allo stesso tempo. Paese che vai riforme che trovi. In Italia il costo del lavoro è un passaggio chiave per aumentare la produttività. In Germania la priorità è il mercato dei servizi ancora chiuso e protezionistico. La Francia deve mettere mano allo stato sociale, pensioni comprese. Tanto per fare alcuni esempi. Un “governo europeo delle riforme”, se così possiamo chiamarlo, dovrebbe essere in grado di coordinare gli sforzi dei singoli paesi e aiutarli con strumenti ad hoc (compreso il dosaggio corretto delle regole di bilancio) che stimolino e accompagnino il cammino riformatore.
Aspettando Godot, però, bisogna stare attenti che non si creino le condizioni per una ricaduta recessiva (la seconda o la terza se comprendiamo anche quella del 2008-2009). Padoan è un esperto di macroeconomia e politica economica, queste cose le sa bene, le ha spiegate anche ai suoi colleghi che seguono la nasometria? Il ministro italiano si è barcamenato con abilità nel tentativo di non far emergere nessuna posizione troppo netta e di non provocare alcuna frattura. Ma l’aria che tira non è affatto positiva. Può darsi che l’atmosfera sia migliore a livello di governi e di Commissione, forse l’arrivo di un socialista agli Affari economici e monetari potrà addolcire la forma e i comportamenti tattici, anche se non cambierà la sostanza.
Il tanto peggio tanto meglio non è mai un approccio costruttivo, eppure a questo punto c’è da augurarsi che nei prossimi mesi peggiori la congiuntura tedesca, per aprire uno spiraglio nella cocciutaggine teutonica. Oggi come oggi, non si vede nessun ravvedimento. Inutile farsi illusioni, la Bundesbank non siede nella cancelleria, come ha ricordato Padoan con una battuta sferzante che certamente Jens Weidmann prima o poi gli rinfaccerà (il Presidente della Buba è un tipetto che non dimentica e risponde a tono), ma determina eccome la politica di Berlino.
Per Matteo Renzi (e con lui l’Italia, non è il momento di giocare a scaricabarile) la luna di miele è finita. Deve portare prove concrete che le promesse vengono realizzate e, ancor più importante, che producano conseguenze benefiche sui conti pubblici e sulla crescita. Finora gli 80 euro in busta paga hanno dato effetti politici eclatanti, ma i risultati economici non si vedono. Il capo del governo italiano non mollerà facilmente; forse a questo punto deve dotarsi di una strategia europea più solida che non la diplomazia delle battute e delle pacche sulle spalle.