Il rapporto Svimez ha descritto un’Italia spaccata in due, un Paese diviso dove il Sud precipita in termini di produzione e di disoccupazione. Infatti, il Pil del Mezzogiorno – secondo il rapporto dell’istituto di ricerca – nel 2013 è “crollato del 3,5% contro il -1,4% del centro Nord”; negli anni di crisi 2008-2013 “il Sud ha perso il 13,3%”. Il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 10 anni fa, gli occupati sono scesi a 5,8 milioni, il dato più basso dal 1977 primo anno delle serie storiche disponibili con le attuali metodologie di calcolo. Ne abbiamo parlato con Antonio Saladino, che nel Mezzogiorno e soprattutto nel sud del Sud, in Calabria, si è occupato per anni di sviluppo imprenditoriale e di politiche attive del lavoro.
Come si spiega, secondo lei, questo dato drammatico per l’economia del Mezzogiorno?
Le cause sono tante e la crisi degli ultimi anni ha evidenziato e fatto emergere problemi che già a un occhio più attento erano evidenti anche prima; sono cause di vario tipo: antropologiche, sociali, economiche, strutturali e anche politiche. Quella del Sud è stata per decenni un’economia drogata, con i finanziamenti su investimenti pubblici e privati che di fatto non hanno risolto i ritardi strutturali del Meridione, ma hanno creato da un lato un vago fittizio benessere e dall’altro hanno arricchito altre economie, quelle delle grandi aziende e delle multinazionali che lucravano – anche legittimamente – sugli investimenti straordinari e con un Sud che ha fatto più da cicala che non da formica, non investendo mai su qualcosa che potesse dare una stabilità di produttività e quindi di benessere. Pasquale Saraceno diceva: “Il Sud è debole quindi lo sviluppo è compito dello Stato”. Niente di più sbagliato! Lo Stato deve creare le infrastrutture e garantire la sicurezza di un territorio, non produrre biscotti!
Tra le prime cause ha indicato quelle antropologiche e sociali. Cosa intende?
Varie vicende, almeno dall’Unità d’Italia in poi, hanno portato la gente del Sud a non porre fiducia su se stessa ma a sperare in un’ancora di salvezza che arrivasse da fuori o in una possibile realizzazione di sé che potesse trovare concretezza solo lontano da qui. In questo senso sono spiegabili sia la corsa all’emigrazione, sia l’affidarsi a forme di intervento straordinario che hanno reso il Sud dipendente da aiuti esterni. Questa emigrazione, anche con il crollo generalizzato del sistema manifatturiero tradizionale, quello per intenderci che portava i meridionali a lavorare nelle catene di montaggio delle auto a Torino, oggi è cambiata: non emigrano più le braccia ma le teste migliori: professionisti e ricercatori. La stessa Svimez dice infatti che su un milione e mezzo di nuovi emigrati, 188 mila sono laureati. Ciò ha portato a un decadimento strutturale della qualità dell’offerta di lavoro esistente al Sud. Si è finito, pur con le dovute singole eccezioni, a creare generazioni di giovani più interessati al posto di lavoro, magari in un ente pubblico che non al lavoro.
Gli investimenti pubblici, l’intervento straordinario, i fondi comunitari sarebbero dovuti servire proprio a bloccare e invertire queste tendenze.
Già prima della crisi, e lo abbiamo sostenuto per anni, c’erano dati che dimostravano come in quasi mezzo secolo di interventi straordinari il Pil reale fosse cresciuto solo a livelli infinitesimali. I fondi straordinari, le sovvenzioni comunitarie, sono spesso servite, come dicevo prima, più a far crescere il fatturato di aziende del Nord e straniere che non a sviluppare i sistemi produttivi del Sud. Questa situazione è stata inoltre aggravata dai ritardi e dalle incapacità della spesa, bloccata spesso dalle invidie reciproche tra potentati locali, con logiche del tipo: “Se questa cosa deve farla il mio rivale o il mio vicino anziché io, è meglio che non si faccia proprio”.
Spesso come causa del mancato sviluppo del Sud si indica il ruolo frenante della ‘ndrangheta, della mafia e della camorra….
È indubbio il ruolo della criminalità organizzata è devastante. Il potere non poteva inventarsi un controllo migliore del territorio: gestendo il bisogno si custodisce il deserto. Anche a Tokio a New York o a Londra c’è la mafia, ma nel contempo ci sono potentati economici che non si fanno pestare i piedi! E ci sono istituzioni credibili. I poteri si equilibrano per cui è possibile fare sviluppo. Da noi, invece, la criminalità non ha rivali!
Negli anni passati c’è stato il vescovo di una diocesi calabrese intervenuto direttamente con iniziative per creare lavoro: monsignor Bregantini, oggi che è in Molise e non più nella locride è Presidente della commissione della Cei per il lavoro… La Chiesa e il mondo cattolico in genere devono essere concentrate sull’evitare gli “inchini” nelle processioni o possono svolgere anche un’azione diversa, in senso educativo, orientata allo sviluppo?
Che nelle processioni ci fossero elementi di neo paganesimo era evidente già negli anni ’50. Ci fu un caso clamoroso nella Diocesi di Nicastro dove il Vescovo vietò la processione di S. Antonio, considerata da tutti come la manifestazione di popolo più importante della città. Ci furono manifestazioni violente con feriti e arresti, ma il vescovo tenne duro e la processione fu profondamente rivista. Mons Bregantini con la sua cultura trentina ha sfidato l’ambiente; ma le resistenze sono state notevoli e ha corso seri rischi e subito grosse incomprensioni!
Cosa può – e deve – fare il Sud per ripartire?
Proprio con mons Bregantini ne abbiamo più volte discusso. Lui voleva far sorgere la CdO a Locri. Io gli dicevo che il problema non era fare la CdO ma convertire il cuore e la mente dei ragazzi che a lui volevano bene. Del resto anche io ho sbagliato quando mi sono fatto prendere dall’ansia del progetto, della riuscita. Al Sud serve un lavoro educativo, paziente, un restauro dell’umano. Abbiamo a che fare con un danno antropologico di tipo ambientale: “Qui non si può altrove è possibile”. Ciò aiuta a capire perché i migliori professionisti non solo al Nord Italia ma nel mondo sono spesso meridionali.
(Sabatino Savaglio)