Mario Draghi tre anni dopo. Questa volta non c’è una lettera formale, come avvenne il 5 agosto 2011, ma un faccia a faccia informale con Matteo Renzi. Non sono emersi dettagli dell’incontro nella villa di Draghi vicino a Città della Pieve, ma quel che si è riusciti a sapere, non è affatto consolante. La situazione economica italiana è drammatica. Se le cose non cambiano, anche quest’anno l’economia sarà in recessione; con l’aggravante che si sono fermati anche gli altri grandi paesi, la Francia e, dopo cinque anni, la stessa Germania.
Il presidente della Bce si è impegnato a ricorrere a misure straordinarie per evitare la deflazione e rilanciare la domanda: finora sono stati impegni verbali, a settembre dovrà passare ai fatti. Ma ha bisogno che l’Italia si rimetta in carreggiata. Sarebbe troppo facile, infatti, accusarlo di aver stampato moneta per aiutare il proprio Paese, una critica emersa anche nell’estate 2011, quando comperò titoli italiani, e due anni fa, quando Draghi salvò l’euro.
Cosa deve fare, allora, il governo Renzi? Cerchiamo di immaginare non la lettera che non c’è, ma lo schema tracciato dalla Bce. Facciamo finta di aver trovato il bloc-notes con gli appunti nei pressi di Città della Pieve e vediamo cosa c’è scritto.
Premessa. A fronte di un miglioramento nel costo del debito in seguito alle politiche monetarie della Banca centrale europea, c’è un netto peggioramento del rapporto tra debito pubblico italiano e prodotto lordo (ben sedici punti percentuali rispetto al 2011) dovuto soprattutto alla mancata ripresa.
Una delle componenti della bassa crescita è il livello significativamente ridotto dell’investimento privato. Non è una eccezione nell’area euro dove il livello degli investimenti privati è molto più basso che in altre parti del mondo, come negli Stati Uniti. E la colpa non è il costo del capitale, perché gli interessi, nominali e reali, sono rimasti bassi, anzi in alcune aree dell’euro zona sono rimasti addirittura negativi. Dunque esiste in generale un problema di domanda. Un sostegno potrà derivare, oltre che da politiche espansive nei paesi dove le condizioni dei conti pubblici lo consentono, da un’azione concertata a livello europeo. Ma ciò richiede un impegno ancora maggiore in paesi come l’Italia, dovendo recuperare un decimo del prodotto lordo prima di tornare agli stessi livelli ante crisi.
La seconda componente ha a che fare con le riforme strutturali. L’incertezza sui loro contenuti, sulla loro implementazione e sulla loro ricaduta temporale è un fattore molto importante che scoraggia l’investimento privato.
Risultati importanti sono stati ottenuti nell’aggiustamento della finanza pubblica. Tuttavia, il risanamento è stato compiuto soprattutto attraverso un consistente sforzo fiscale che ha compresso la domanda per consumi e investimenti. Anche per questo la recessione si manifesta più lunga e pesante del previsto. Se il dosaggio tra aumento delle entrate e riduzione delle uscite correnti fosse stato più equilibrato, l’Italia avrebbe potuto trarre un vantaggio maggiore dalla riduzione del costo del denaro sui mercati, dalla politica monetaria espansiva e dalla ripresa della domanda internazionale.
Il governo italiano ha sette compiti fondamentali:
1) I conti in ordine. La riduzione del rapporto tra debito e prodotto resta la sfida ineludibile; la sua velocità dipende dal ritorno a una crescita stabile e sostenuta. Crescita economica ed equilibrio del bilancio pubblico non possono che essere perseguiti congiuntamente. Secondo numerosi studi, riforme strutturali come quelle citate hanno ricadute positive sulla crescita, ma richiedono spesso tempi di attuazione lunghi e i loro benefici non sono immediati. Per questo, non c’è più tempo da perdere. La dinamica negativa del Pil impone un aggiustamento in corso d’anno per restare sotto quota 3% ed evitare una nuova procedura d’infrazione. Per il 2015 la legge di stabilità deve prevedere un intervento non inferiore a un punto e mezzo di Pil, senza aumentare la pressione fiscale.
2) Le imposte. Dopo l’aumento registrato nel 2012 (1,5 punti percentuali), la pressione fiscale è scesa nel 2013 di quasi due decimi di punto, al 43,8%, risultando comunque 2,1 punti sopra a quella media degli altri paesi dell’area dell’euro. Nel 2013 in Italia il cuneo fiscale relativo a un lavoratore dipendente senza carichi familiari e con una retribuzione lorda pari a quella media dei lavoratori a tempo pieno del settore industriale e dei servizi è pari al 47,8% del costo del lavoro. Questo valore è superiore di circa 5,4 punti percentuali a quello medio degli altri paesi dell’area dell’euro. Per quanto concerne invece il prelievo sui redditi di impresa, nel 2013 l’aliquota legale in Italia è superiore a quella degli altri paesi dell’area di circa 6 punti percentuali; tale aliquota è tuttavia sostanzialmente in linea con quella media di Germania, Francia e Spagna.
3) La spesa. La spesa primaria corrente, che si era ridotta nei due anni precedenti, è aumentata dell’1,3%, trainata dalla crescita delle prestazioni sociali (2,7%). Nel complesso, l’analisi delle stime tendenziali suggerisce che nel 2015 i risparmi di spesa indicati come valore massimo ottenibile dalla spending review non sarebbero sufficienti, da soli, a conseguire gli obiettivi programmatici.
4) Il mercato del lavoro. Tre anni fa la Bce scriveva: “C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”. In questo periodo è stato fatto molto, ma manca ancora il passaggio più importante. La disciplina relativa alla flessibilità in uscita non ha subito interventi. La riforma Fornero aveva circoscritto il perimetro della tutela reintegratoria introducendo limiti massimi all’indennità da corrispondere al lavoratore. Era stata inoltre prevista una procedura di conciliazione preventiva per evitare l’insorgere del contenzioso. Infine, con l’obiettivo di contenere la durata dei giudizi relativi ai licenziamenti, la legge aveva anche previsto un rito speciale per tali controversie. Per valutare l’impatto di questi cambiamenti, tuttavia, bisogna attendere che il parlamento approvi i provvedimenti varati dal presente governo. Ci vorranno ancora dei mesi e l’esito resta incerto.
5) Liberalizzazioni. Grazie alle misure nel comparto dei servizi realizzate tra il 2011 e il 2012, l’Italia registra oggi, in base agli indicatori dell’Ocse, un aumento dell’apertura alla concorrenza. Ma alla fine dell’anno scorso solo metà dei provvedimenti attuativi previsti dalle 69 leggi di riforma approvate tra il novembre del 2011 e l’aprile del 2013 era stata definita. Secondo le stime dell’Ocse, le riforme della regolamentazione dei mercati dei beni, dei servizi e del lavoro finora realizzate avrebbero un impatto positivo sul Pil dell’ordine del 5,5% dopo dieci anni. Dunque il fattore tempo è fondamentale.
6) Infrastrutture. La dotazione di infrastrutture in Italia è inferiore a quella dei principali paesi europei, ciò influenza la produttività e le scelte di localizzazione delle imprese, la qualità della vita dei cittadini. I ritardi accumulati nei decenni passati, più che l’insufficienza delle risorse, riflettono inefficienze nel loro utilizzo, ma nell’ultimo quadriennio la spesa per investimenti pubblici è diminuita di quasi il 30%. Al finanziamento delle infrastrutture, e alla stessa salvaguardia del territorio, possono concorrere in misura maggiore risorse europee e capitali privati, con benefici per l’edilizia, particolarmente colpita dalla recessione.
7) Reform compact. A questo punto la Bce chiede all’Italia uno sforzo aggiuntivo, attraverso un patto per le riforme da concordare con la Ue, complemento fondamentale del Fiscal compact. Il semestre della presidenza italiana potrebbe concludersi con questa proposta da sottoporre al Consiglio dei capi di stato e di governo. Sarebbe un segnale politico importante che rafforzerebbe l’Italia nel contesto europeo e darebbe maggiori garanzie per negoziare l’applicazione intelligente delle regole di bilancio.
Sono stati realizzati importanti progressi dal lato monetario con la creazione della Bce e dell’euro. Abbiamo fatto importanti progressi nel condividere la sovranità dei bilanci pubblici, nell’accettare di condividere regole comuni. Abbiamo fatto un grande progresso nel creare l’unione bancaria. Ma c’è un’area ulteriore che ha acquistato durante la crisi una importanza ancora più grande ed è l’area delle riforme strutturali. È ormai tempo di cominciare a condividere la sovranità anche in questa area che comprende il mercato del lavoro e dei prodotti, sottoponendo il processo di riforma a una disciplina comune, replicando così il successo realizzato nell’area della politica di bilancio.
Gli appunti finiscono qui. Basta e avanza. C’è un programma di governo difficile e ambizioso, diverso da quello presentato finora dal lato della politica di bilancio (manovra aggiuntiva, riduzione del cuneo fiscale al di là degli 80 euro, un taglio più coraggioso della spesa pubblica), con in più il corsetto, sia pur consensuale, del patto sulle riforme. È la cessione di sovranità che ha in mente Draghi non solo per l’Italia, ma per la Francia e i paesi che si dimostrano impermeabili al cambiamento. La stessa Bce oggi rischia grosso, perché se non riesce a riportare verso l’alto la curva dei prezzi va incontro a un clamoroso fallimento del proprio mandato. E anche per questo Draghi ha l’assoluta necessità che l’Italia si rimetta in moto. Subito, non in un incerto futuro.