Il 6 luglio scorso, con un editoriale pubblicato su Il Sole 24 Ore, il Prof. Quadrio Curzio, che già in passato (quando l’assetto proprietario della Banca d’Italia non era stato ancora riformato) aveva suggerito di ricorrere alle riserve auree nazionali per garantire un’emissione obbligazionaria che contribuisse ad alleviare il carico del servizio del debito e ad attenuare i conseguenti effetti negativi sull’economia nazionale, già depressa, è tornato sul tema, formulando, all’esito di un’articolata analisi, la seguente proposta: “Per dare concretezza alla nostra determinazione su riforme-crescita potremmo dare in pegno alla Bce e/o alla Commissione europea 10 milioni di once d’oro delle nostre riserve ufficiali (che sono in totale 79 milioni di once) equivalenti a 10 miliardi di euro circa al prezzo medio 2009-2013, condizionando la restituzione in base a frazioni di calo nel debito su Pil. Nulla lo vieta anche senza riandare al 1974-1978 quando la Germania ci fece un prestito (che oggi non chiediamo) solo contro la garanzia aurea. Saremmo così nell’ambito della continuità innovativa e del solidarismo liberale che piace a molti europeisti”.
La proposta muove dall’espresso presupposto per cui, stando a un “recente, notevole, studio di Mediobanca Securities, per rispettare il Fiscal compact dovremmo avere per i prossimi 20 anni un avanzo primario del 5% e una crescita del Pil del 2% ogni anno”. Ciò – rileva giustamente Quadrio Curzio – “è impossibile quali che siano le nostre riforme strutturali, che tra l’altro rendono il più delle volte sul medio-lungo termine”. Viceversa l’Italia ha bisogno, per favorire la crescita e rendere quindi possibile l’effettiva riduzione del proprio debito, di maggiore flessibilità per quanto concerne gli investimenti, che, a suo dire, potrebbe ottenersi mediante il suddetto pegno.
La misura in parola dovrebbe sostituire la manovra d’autunno della quale si parla con sempre maggiore insistenza e con evocazione, di volta in volta, di cifre crescenti, che sarebbe invece necessaria per adempiere agli obblighi che discendono dal Fiscal compact, allorché l’Italia, allo stato attuale e delle previsioni razionali, non sarebbe in condizione di onorarli per fatti (almeno in parte) a essa non imputabili, se si esclude l’actio (almeno formalmente) libera in causa della stipulazione di tale trattato.
Prima di far qualche cenno alla concreta realizzabilità dell’operazione prospettata, conviene osservare che l’ipotesi sottende uno scenario prossimo a quello di una minacciata disfatta bellica, che riporta alla mente le parole dell’allora Governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, nella Relazione per il 1975 (p. 421), ove si legge testualmente: “La Banca d’Italia e l’Ufficio Italiano dei Cambi assolvono l’amaro compito di gestire un processo che, nel governo dei flussi monetari e valutari, ci assimila all’economia di stato d’assedio”.
Il richiamo di Quadrio Curzio al prestito concessoci dalla Germania proprio in quegli anni cade, quindi, in acconcio. Ma non è sufficiente a risolvere le questioni che la proposta solleva e che meglio potranno analizzarsi quando l’illustre economista avrà fornito quel maggior dettaglio che la gravità del contesto donde muove e della soluzione formulata certamente esigono.
Allora lo “stato di assedio” risultava da manovre speculative sulla nostra divisa nazionale e il prestito garantito con l’oro italiano – la cui restituzione, una volta estinto il debito, fu solertemente perseguita e ottenuta dal Governatore in carica – configurava un rapporto tra Stati sovrani. Oggi il pegno – non può desumersi, dallo scritto di Quadrio Curzio, se regolare o irregolare – dovrebbe servire a rimodulare modi e termini dell’adempimento dell’Italia alle obbligazioni contratte con il Fiscal compact, senza che si sappia precisamente: a) chi sia il prenditore del pegno e a quale titolo (Quadrio Curzio indica alternativamente e congiuntamente la Commissione e la Banca centrale europea); b) quale sia dunque il regime giuridico che regolerebbe la costituzione della garanzia; c) chi diverrebbe proprietario dell’oro nel caso in cui l’Italia non fosse in grado di rendere le prestazioni in ipotesi promesse a fronte della suddetta rimodulazione degli obblighi di cui al Fiscal compact e, prima ancora, chi e come dovrebbe giudicare dell’esattezza dell’adempimento.
Al di là di tali aspetti – che pure non sono di mero dettaglio o de iuris subtilitatibus – si deve altresì considerare che la causa prima della proposta parrebbe doversi individuare nell’assenza, in capo allo Stato nazionale, di quelle sue essenziali funzioni (tra le quali, com’è noto, la moneta e il governo della liquidità) delegate (o cedute?) alle istituzioni comunitarie, che, se ancora disponibili, permetterebbero la difesa dall’“assedio” anche senza impegnare, è proprio il caso di dire, le riserve auree.
Più ancora, lo stato d’eccezione nel quale versa il nostro Paese è determinato anche e innanzitutto dalla struttura del cosiddetto ordinamento comunitario, che, mentre assume in capo a sé le suddette funzioni, non ha alcuno specifico obbligo di soccorrere gli Stati membri quando la congiuntura economica o altri fattori non permettano ai medesimi di procedere nel percorso di unificazione del quale pure il Fiscal compact dovrebbe (asseritamente) essere strumento. Il versante passivo della sovranità (e pertanto i doveri di mantenimento e di cura delle collettività nazionali), insomma, separato ormai da quello attivo, continua a gravare sugli Stati nazionali, la cui disponibilità di mezzi viene ormai determinata ab extra.
In tale contesto, lo Stato che versi in particolari condizioni di difficoltà – in assenza di intervento di chi detiene gli Hoheitsrechte – è ridotto quasi a un soggetto di diritto comune, il cui potere è di natura essenzialmente patrimoniale e non può far altro che cedere o tentare di cedere ai propri creditori le “pertinenze della sovranità”, quelle cose cioè che a esso appartengono per il soddisfacimento di necessità “esistenziali” della collettività, dagli assets strategici (ad esempio, nel settore dell’energia), ai beni del demanio necessario, sino, appunto, alle riserve auree e, addirittura, al territorio (e, frattanto, perdendo corrispondentemente capacità di autodeterminazione politica, trovandosi magari perciò costretto a riarticolare in tal senso la propria struttura istituzionale).
È da chiedersi, però, se e in che misura ciò corrisponda al sistema europeo, per come delineato dai Trattati, e, con specifico riferimento all’Italia, a quei criteri di parità (e non di mera eguaglianza) exart. 11 Cost. in forza dei quali essa ha sottoscritto i patti fondativi. In proposito, il dibattito – quando non irretito da prudenze onomastiche e concettuali – ha rivelato elementi degni della più attenta riflessione, ad esempio per quanto attiene alla compatibilità tra i Trattati e la disciplina dei cosiddetti parametri di bilancio e di indebitamento. Si rileva, infatti, agevolmente che, nell’assetto attuale, i “congegni” europei si prestano facilmente, troppo facilmente, allo sviamento di potere e a contese egemoniche.
In ultimo, possono nutrirsi seri dubbi in ordine al permanere di un potere dispositivo dello Stato sulle riserve auree, il cui regime giuridico (sul quale opportunamente lo stesso Quadrio Curzio ha sollecitato la riflessione dei giuristi), ad avviso di chi scrive, è assimilabile a quello del demanio necessario: successivamente alla riforma della Banca d’Italia, realizzata con il d.l. n. 133/2013, però – fermi restando i profondi dubbi di illegittimità costituzionale – tali riserve, come si è avuto modo di illustrare su queste pagine – entrano a comporre il patrimonio di un ente pubblico partecipato, in misura quasi totalitaria, da soggetti privati, il valore dei cui titoli di capitale è determinato anche dall’oro: essi ben difficilmente acconsentirebbero a disporre delle riserve, se non ricevendo a loro volta garanzia della reintegrazione del patrimonio per l’ipotesi in cui le medesime, per fatto di un terzo (cioè dello Stato), dovessero essere attribuite al creditore pignoratizio.
Come si vede, il tema dell’oro di Bankitalia – bene ancor oggi essenziale, a dispetto delle opinioni che lo ritengono retaggio di un’epoca tramontata – è di primario rilievo: l’imprevisione (non si sa quanto involontaria) del d.l. n. 133/2013, che non contiene alcuna espressa disposizione in materia – nonostante le proposte emendative presentate in sede di conversione – avvalora il convincimento che la privatizzazione dell’Istituto centrale abbia determinato la definitiva sottrazione di tale strumento alla (residua) sovranità italiana.