Mal comune mezzo gaudio. Non è chiaro se il Presidente del Consiglio Matteo Renzi si sia espresso in questi termini alla lettura dei dati macro-economici di Germania e Francia. Se lo avesse fatto, avrebbe commesso un grave errore: da un lato, l’andamento dell’economia italiana dipende da quella del resto dell’eurozona (più delle altre, a ragione del suo carattere di economia trasformatrice, manifatturiera ed esportatrice); da un altro – come meglio vedremo in questa nota -, la nostra situazione, attuale e prospettica, è notevolmente più grave di quella di gran parte degli altri Stati che appartengono all’area dell’euro.
Comunque, numerosi esponenti dell’Esecutivo hanno sottolineato che i numeri negativi per le economie di due partner fondamentali come Francia e Germania hanno rafforzato alla vigilia di Ferragosto la richiesta italiana di una maggiore flessibilità nelle regole europee. “I numeri di Francia e Germania sono la prova che le nostre tesi non sono infondate: dopo la tempesta economica abbiamo tenuto le cinture del rigore allacciate troppo a lungo, e ora rischiano di soffocare l’Eurozona”, ha detto Sandro Gozi, sottosegretario a Palazzo Chigi con delega agli Affari europei. “È evidente che le politiche seguite finora a Bruxelles non danno i frutti sperati, anzi. Queste politiche di eccessivo rigore accentuano gli stessi problemi che avrebbero dovuto risolvere, come il deficit francese e il debito italiano, che senza crescita peggiorano”. Per il sottosegretario all’Economia,Pier Paolo Baretta, inoltre, “questi dati dimostrano che nessuno ne esce da solo”. Non c’è nessun “caso Italia”, “non siamo il vagone di coda” e tutta “l’Eurozona è in stagnazione”, ha detto apertamente Matteo Renzi. Anzi, “l’Italia è in condizione di trascinare l’Eurozona fuori dalla crisi”.
È utile partire da questa affermazione per suggerire al presidente del Consiglio di ascoltare un po’ di più il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, nella squadra, peraltro non proprio ben assortita, di cui si è circondato a Palazzo Chigi. In primo luogo, i numeri di chi non è coinvolto in politica attiva parlano chiaro. I venti maggiori istituti econometrici internazionali (tutti privati, nessuno italiano) affermano che nel 2014 (si è ormai nel terzo trimestre), l’area dell’euro avrà una crescita dell’1,1%, ma l’Italia (non vagone ma fanalino di coda) dello 0,2%. Queste stime, pubblicate alla vigilia di Ferragosto, avvertono che il “rischio di previsione” è elevato: se il ciclo negativo di Francia e Germania dura più di due semestri, il Pil dell’eurozona potrebbe ristagnare, ma quello dell’Italia scivolare in una deflazione e nuova recessione che avrebbero insieme i caratteri di una depressione.
Ciò potrebbe rendere i nostri mercati un bersaglio per la speculazione. Antonio Alonso della Università Tecnica di Lisbona e Antonio Jorge-Silva del servizio studi della Banca centrale del Portogallo – due economisti eterodossi e certo da non potere essere considerati ‘longa manus’ della Bundesbank – dimostrano nell’ISEG Working Paper No. 10/2014/DE/UECE che l’euro ha aumentato l’intensità dei meccanismi monetari di trasmissione con il risultato che gli Stati a più alto debito pubblico relativamente al Pil e a più bassa crescita economica sono quelli considerati dalle piazze internazionali a rischio di minor tenuta. Potremmo essere costretti a sganciarci dalla moneta unica o a esserne cacciati.
Tanto più che la Banca centrale europea non ha strumenti adeguati (dovrebbe iniziare con modificare i propri regolamenti di base, come argomentato su questa testata l’11 agosto) e l’unione bancaria è ancora largamente incompiuta (come documenterà un libro del centro studi Astrid in uscita tra qualche settimana). Se i singoli Stati europei andassero ciascun per conto loro in materia di politica di bilancio, l’esito sarebbe “la disintegrazione europea” – a cui è dedicato l’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies – (è il titolo del saggio di Hans Vollaard dell’Università di Leiden in Olanda). E l’Italia sarebbe uno dei Paesi che più soffrirebbero di tale “disintegrazione”.
Che fare? Innanzitutto, non nascondere la trave nel nostro occhio indicando il fuscello in quello del vicino. In secondo luogo, affrontare sul serio i problemi economici del Paese, dopo essersi gingillati per mesi con riforme istituzionali che (anche ove fossero ben concepite e ben articolate) nei prossimi anni non porterebbero che a una riduzione della produzione e dell’occupazione. Occorre affrontare in via prioritaria i nodi del debito, della produzione e occupazione (aumentando la produttività, quindi la concorrenza, da cui la liberalizzazione dei mercati delle merci e dei servizi) e dando una volta per tutte un quadro stabile alle regole per il lavoro.