Oggi, quando in Europa sarà già sera, Mario Draghi parlerà dal palco di Jackson Hole, Wyoming, davanti alla platea dei banchieri centrali ospiti della Federal Reserve di Kansas City. Sarà la prima volta da quando il banchiere italiano è ai vertici della Bce. Sia nel 2012 che l’anno scorso, infatti, Draghi disertò il vertice adducendo “il carico di impegni” che lo tratteneva a Francoforte. Ne potremmo dedurre, sbagliando, che quest’anno il presidente della Bce sia meno occupato. Al contrario, i mercati finanziari attendono con ansia che la Banca centrale europea entri nel merito delle numerose questioni che vanno affrontate e risolte prima di dare il via al sospirato Quantitative easing europeo.



Certo, le ragioni della diversa scelta possono essere le più disparate, non ultimo un gesto di cortesia per l’esordio di Janet Yellen al simposio che in passato ha offerto più situazioni “storiche”: nel 2005, quando l’allora direttore generale del Fondo monetario internazionale, Raghuram Rajan (oggi governatore della banca centrale indiana), colse l’occasione del saluto ad Alan Greenspan per lanciare un violento attacco contro la politica della Fed, foriera di gravi squilibri internazionali che all’epoca non si vedevano ancora; nel 2012, quando Ben Bernanke scelse Jackson Hole per lanciare il Qe 3, versione estrema della politica espansiva che ha consentito di scacciare oltre Oceano il rischio recessione. Stavolta, almeno a giudicare dal titolo scelto da Janet Yellen (“Riconsiderare le dinamiche del mercato del lavoro”), è lecito aspettarsi indicazioni rilevanti sulle mosse della Fed per rilanciare i salari.



Ma, rispetto al recente passato, c’è senz’altro almeno una ragione in più per spiegare la scelta di Draghi di concedersi un weekend lungo ai piedi delle Montagne Rocciose, meta ideale per le passeggiate in montagna: negli anni scorsi l’emergenza europea era soprattutto una questione di politica interna ai confini dell’eurozona. Due anni fa Draghi, una volta promesso ai mercati finanziari che la banca avrebbe fatto tutto il possibile per difendere l’euro, era impegnato nel lato del programma Omt, il meccanismo d’intervento messo a punto per garantire gli operatori sulla serietà degli intenti pro moneta dell’Europa. L’anno scorso, il presidente era in attesa del verdetto della Corte Federale di Karlsruhe, da cui dipendeva la sorte dell’Omt e, di riflesso, dell’euro. Insomma, la sorte dell’eurozona dipendeva dall’esito di una sorte di incruenta guerra civile all’interno dei confini dell’Unione. E oggi?



La situazione è senz’altro meno drammatica sul fronte finanziario. L’euro, per ora, è abbastanza solido. I quattrini son affluiti in maniera impensabile nelle casse di Italia, Spagna, Portogallo o, addirittura, della Grecia. In cambio, la congiuntura è assai più drammatica e complessa sul fronte dell’economia reale. È una differenza di non poco conto. La politica monetaria può scongiurare il collasso dell’euro. Ma da sola, come si è visto, non può trascinare l’economia fuori dalle secche in assenza di una politica fiscale rigorosa, quella che dipende dai governi piuttosto che dai banchieri. Inutile farsi illusioni: senza una forte iniziativa dei governi in grado di rilanciare la domanda, sulla falsariga del Tarp americano o del bazooka dell’Abenomics giapponese, le iniziative di Draghi potranno evitare il collasso della liquidità permettendo così una boccata d’ossigeno alle imprese. Ma nulla di più.

Purtroppo, però, la contrapposizione tra le filosofie al governo in Europa non consente di pensare a un cambio di passo condiviso dalle capitali dell’eurozona: da una parte resiste la cocciutaggine tedesca nell’esigere l’austerità, anche a costo di infliggersi ferite e ritardi che peseranno in futuro (la Germania è al penultimo posto nell’Ocse per investimenti in infrastrutture dal 2000 in poi); dall’altra la tenacia franco-italiana nel non affrontare le riforme strutturali necessarie in materia di welfare, Pubblica amministrazione e mercato del lavoro. La sintesi finale non può che essere un risultato finale desolante, all’insegna della reciproca sfiducia, che non lascia prevedere nulla di buono.

In questa cornice, la Bce avanza come può, tra sporadiche accelerazioni (vedi i prossimi prestiti Tltro) e improvvise frenate imposte da mani tedesche, confermando una regola ben nota: la politica monetaria, anche la più espansiva, può guadagnare tempo e attutire i problemi strutturali, ma non può risolverli. Che fare? Svalutare l’euro è la misura d’emergenza più ovvia e più facile. Ma anche la più efficace nel breve termine. Anche perché è l’unica che può metter d’accordo le tesi francesi e italiane con la Germania, alle prese con la crisi ucraina.

L’euro più debole può aiutare a fare risalire un’inflazione europea troppo bassa. Il dollaro più forte aiuta a frenare l’inflazione americana che tende al rialzo. E quando nel 2015 il rialzo dei tassi americani rafforzerà ulteriormente il dollaro, l’euro debole potrebbe aiutare i profitti europei. Insomma, in assenza di meglio, l’Europa (e il Giappone) non possono che chiedere a Janet Yellen di non ritardare troppo l’uscita dal Qe Usa per tornare a una politica di tassi “normali” da concordare con le banche centrali. Solo così il Qe europeo che Draghi si accinge a varare, nonostante le consuete resistenze tedesche a qualsiasi operazione che non sia preceduta dalle “riforme” in Italia e in Francia, potrà produrre qualche risultato. Anche se per i miracoli non basta più rivolgersi alla bacchetta magica del banchiere di Francoforte, alle prese con la deflazione che non ha saputo o potuto evitare e combattere in maniera appropriata.