Tanto tuonò che non scese nemmeno una goccia. O, se preferite, molto rumore per nulla. Si può riassumere così il tanto atteso meeting dei banchieri centrali a Jackson Hole, un concentrato di equilibrismo politico-economico in grado di non scontentare troppo nessuno, ma, soprattutto, di non dare mezza indicazione reale al mercato riguardo gli sviluppi che dobbiamo attenderci da qui a fine anno. Cominciamo da Janet Yellen, numero uno della Fed, a detta della quale l’economia americana si sta avvicinando agli obiettivi di piena occupazione e stabilità dell’inflazione fissati dalla banca centrale, motivo per cui il dibattito all’interno della Federal Reserve americana si sta «naturalmente spostando» sulla tempistica di un aumento dei tassi di interesse, che potrebbe arrivare «prima del previsto», ma solo se i progressi del mercato del lavoro saranno più rapidi delle attese.



Come vi ho detto, tutto e niente: si minacciano tassi in aumento prima del previsto, ma solo se alcuni dati macro andranno in un certo modo. Ben capite che, se i mercati dovesse mandare scossoni, quei miglioramenti come per magia svaniranno. Infatti, nel passaggio successivo, la Yellen ha dichiarato che se, invece, i miglioramenti saranno più lenti, i tassi potrebbero salire con più cautela: «In questo contesto non c’è una ricetta semplice sulla politica monetaria appropriata, che in ultima analisi deve essere portata avanti in modo pragmatico». E ancora, sempre più vaga: «La politica monetaria non si deve affidare a uno specifico indicatore (per esempio, i dati sull’occupazione, ndr) o modello, ma deve piuttosto riflettere le valutazioni in corso su un’ampia gamma di informazioni inserite nel contesto della comprensione di un’economia in evoluzione. Motivo per cui un’economia deludente potrebbe rendere la Fed più accomodante di quanto attualmente preveda».



Unica conferma, almeno a parole, la conclusione del processo di “taper” del Qe, il programma di espansione monetaria: «Il programma di acquisto di bond e titoli (attualmente pari a 25 miliardi di dollari al mese, ndr) sarà completato a ottobre», ha aggiunto Yellen, rilevando che l’economia americana ha fatto considerevoli progressi nel riprendersi dalla più sostenuta perdita di occupazione dalla grande depressione. «Questi sviluppi sono incoraggianti, ma cinque anni dopo la fine della recessione il mercato del lavoro deve ancora riprendersi completamente», ha precisato, avvertendo che «ci sono complicati scivolamenti strutturali nella struttura del mercato del lavoro che potrebbero aver portato a cambiamenti persistenti nella struttura stessa». Insomma, un gran minestrone di possibilità e ipotesi, ma non una sola ricetta chiara di guidance per il futuro prossimo.



E in effetti, questo grafico conferma la mia impressione: se negli ultimi anni il meeting di Jackson Hole si era rivelato uno strumento per fare soldi per i trader più lesti del mercato, questa volta l’avanzamento dell’indice Standard&Poor’s non si è registrato. Anzi, è andato addirittura in negativo: nel meeting del 2010, quando Bernanke svelò il piano del Qe si ottenne un avanzamento di 17 punti, l’anno dopo addirittura di 51, nel 2012 di 14, nel 2013 di 21, mentre quest’anno un bel -4.

La Fed, insomma, ha perso il tocco magico. O, più semplicemente, è stata talmente vaga ed elusiva da lasciare anche i trader più scafati senza una minima traccia di guida per i prossimi mesi. Sapete perché? Non certo per i contrasti tra falchi e colombe all’interno della Fed stessa, ma perché la banca centrale Usa è nel marasma più completo, non sa letteralmente cosa fare. Vi ricorderete che due settimane fa pubblicai un articolo in cui spiegavo i motivi perché la Fed non poteva permettersi di far esplodere la bolla del credito in atto, non ultimo il fatto che i fondi pensione Usa abbiano in portafoglio il 50% di investimenti in azioni e solo il 20% in Treasuries, ma c’è anche una teoria opposta, ovvero il fatto che la Fed non possa più permettersi di andare avanti col Qe, soprattutto in base al suo stato patrimoniale e al deficit federale.

Partiamo dalla base, ovvero dal cuore del programma di Quantitative easing: l’acquisto di Treasuries, i buoni del Tesoro Usa. Il gioco è semplice: il governo ha un deficit dovuto alle minori entrate fiscali rispetto alle spese e per finanziare quel deficit emette obbligazioni. Cosa ha fatto la Fed col Qe? Ha stampato nuova moneta per comprare quei bond, ma in questo modo non ha fatto altro che comprare più obbligazioni di quante il Treasury stesse emettendo, a causa del deterioramento del deficit, come dimostra il primo grafico a fondo pagina. Per parecchi mesi la vulgata giustificazionista di questa politica fu quella del dover tamponare le vendite di Treasuries da parte di detentori esteri, ma come dimostra il secondo grafico, anche in questo caso si tratta di una falsità, visto che le detenzioni estere di debito Usa sono salite al nuovo massimo record di 6 triliardi di dollari, conoscendo solo una modesta flessione a metà del 2013. È anzi vero il contrario, visto che gli acquisti di Treasuries sono la base di molte politiche monetarie estere, poiché in questo modo si svalutano le monete nei confronti del dollaro e si crea un dumping favorevole all’aumento dell’export: questa dinamica è tanto vera da aver creato una tale competizione globale nell’acquisto di bond Usa da aver spedito il loro rendimenti ai minimi storici.

Nei fatti, la Fed è entrata in competizione con acquirenti interni ed esteri di Treasuries. Questa dinamica però, ovvero quella di una diminuzione dell’emissione di nuovi titoli di Stato Usa, non fa altro che spingere il dollaro al rialzo verso le altre valute, fatto che stiamo osservando proprio in questi giorni. Il problema è il seguente: tutte queste valutazioni dovrebbero portare automaticamente la Fed ha chiudere e in fretta il Qe, alzando anche un minimo i tassi di interesse, ma c’è dall’altro lato un effetto collaterale spaventoso. Ovvero, quel denaro ha mantenuto il mercato ai massimi e se viene tolto del tutto, lo stesso mercato dovrà supportare i suoi record odierni per suo merito, ovvero in base a fondamentali e valutazioni mark-to-market, facendo gonfiare ancora la bolla sui prezzi e sugli indici creata in questi anni e negli ultimi mesi mantenuta in vita dai buybacks delle grandi aziende che ricomprano loro azioni per tenere alti i prezzi, gli indici e abbassare il flottante. Impossibile.

Che fare, quindi? Nemmeno la Fed lo sa, quindi vaghezza e speriamo nel Signore.

 

(1- continua)