La rottura tra Sergio Marchionne e Luca di Montezemolo non è certo un fulmine a ciel sereno e ha diverse chiavi di lettura. Intanto i due non sono mai andati d’accordo, tanto meno quando Montezemolo è stato imposto alla presidenza della Ferrari dalle sorelle dell’Avvocato per segnare una continuità familiare. La scelta non era andata giù neppure a John Elkann, ma allora era ancora troppo giovane e inesperto. Il manager in maglioncino nero e l’uomo di famiglia in doppio petto carta da zucchero sono due tipi umani opposti in tutto, dall’origine sociale al carattere. La resa dei conti doveva arrivare e il momento è scoccato alla vigilia della quotazione di Fiat-Chrysler a Wall Street. 



La coppia Elkann-Marchionne (perché la decisione è dell’azionista e non solo del manager) si è trovata a scegliere tra due strade: una maggiore autonomia di Ferrari dalla Fiat, magari con quotazione a parte valorizzando il brand; oppure, al contrario, presentarsi davanti agli investitori di Wall Street con tutti i gioielli della corona che nel nuovo gruppo sono Ferrari, appunto, e Jeep, seguite da Maserati, i pick-up Ram e dalla ciliegina 500. 



La prima strada piaceva a Montezemolo perché gli avrebbe garantito una maggiore autonomia e probabilmente la presidenza a vita. Ma Ferrari, pur essendo un brand di primo piano nel lusso, non è un profumo e nemmeno un abito da sera. Per farla camminare su quattro ruote bisogna investire non solo in pubblicità, ma in tecnologia e uomini. Per farla vincere in Formula uno non ne parliamo. E se non vince più anche il suo blasone, arrugginisce e il valore crolla. Nessuno sceicco arabo, oligarca russo o neo-magnate cinese avrebbe potuto garantirne il successo.

La seconda scelta, dunque, era obbligata. Anch’essa ha molti punti deboli. Sarebbe disastroso se la Ferrari diventasse la capofila di una filiera di auto sportive (con Maserati e Alfa) appannando la propria identità. Ancor peggio se venisse annegata nel gruppone. Marchionne ha detto che non avverrà. Prendiamolo sul serio, salvo verifiche. Il neopresidente ha anche spiegato che il cavallino deve tornare a rampare e a vincere. Ha ragione, o si ritira del tutto e accetta di essere una nicchia nel nuovo gruppo (tipo Lamborghini in Volkswagen) oppure deve investire un fracco di miliardi e cambiare tecnologie. I motori Honda o Mercedes hanno successo anche perché utilizzano al meglio le innovazioni introdotte dall’ibrido. Una strada che la Fiat ha esplicitamente rifiutato di percorrere. Qui una colpa ce l’ha anche Marchionne, il quale non ha creduto nell’auto elettrica e ha continuato a sfruttare al massimo il vantaggio nel diesel. Dovrà ricredersi. Ma il cambio lo può fare solo lui perché richiede un impegno finanziario e industriale consistente. 



Dunque, l’uscita di scena di Montezemolo ha dietro motivazioni personali, di potere e strategiche. Ma segna anche un cambio di stagione da un altro punto di vista. Montezemolo è la perfetta incarnazione del capitalismo salottiero, se non proprio clientelare (crony capitalism in inglese suona meno drastico). Dalla presidenza della Confindustria al tira e molla sulla sua “discesa in politica”; dal rifiuto di fare il ministro degli Esteri con Silvio Berlusconi alla interminabile attesa di essere chiamato (toccò invece a Mario Monti); da Charme, Acqua di Parma, Poltrona Frau e Italo, fino alla mediazione con gli arabi di Etihad per Alitalia, si è sempre voluto collocare al centro dello snodo tra politica e affari, alternando successi e clamorosi flop. Ora potrà investire la cospicua buonuscita in nuove iniziative e forse otterrà un’altra presidenza (senza la quale rischia una crisi depressiva). Il suo, però, resta un mondo antico, anche se non proprio piccolo. Quello di Marchionne è più aspro, ruvido (e altrettanto spietato). Quanto a John Elkann, dimostra di avere pelo sullo stomaco (lo si è visto anche con il Corriere della Sera); magari più morbido, data l’età, ma altrettanto fitto.