Un quarto di secolo è trascorso dal 1989, data che ha segnato la mutazione dell’Europa occidentale in qualcosa di ancora indefinito. Un evento epocale che scoprii di ritorno in Europa dopo quattro anni di missione in America Latina. Era il novembre 1989 quando trovai il mio continente e il mio Paese, l’Italia, proiettati in una dimensione spaziale e temporale nuova: i partiti comunisti si scioglievano mentre la Germania di Kohl si riunificava; l’Urss di Gorbaciov cedeva il passo ai neoliberisti capeggiati da Eltsin, mentre si annunciava l’allargamento della Nato e della Comunità europea a Est; nascevano nella fretta dettata dal panico le basi per un’Unione europea e la moneta unica.
Allo smarrimento della “fine della storia” faceva eco l’inizio delle guerre non-guerre, in Jugoslavia e in Iraq. L’economia mondiale si gonfiava di titoli tecnologici e al vecchio Gatt del 1948 si sostituiva l’accordo per il commercio mondiale che ha fatto nascere l’Omc nel 1995. Lo stesso anno sparivano le frontiere interne all’Europa (Accordo di Schengen) e iniziavano le migrazioni dall’Est. Dal 1990 i capitali si muovevano liberamente nello spazio economico europeo e nel corso degli anni ‘90 a livello mondiale, passando da circa il 3% a più del 25%. Le attività produttive dell’Occidente iniziarono a delocalizzare verso paesi dove il profitto del capitale era maggiore in ragione del dumping sociale e fiscale. Iniziava la deindustrializzazione occidentale mentre, allo stesso tempo, la Cina, l’India, e il Brasile riemergevano come campioni dell’economia mondiale.
Il sistema finanziario mondiale si gonfiava come una bolla che ha subìto esplosioni nel 1997, 2000, e 2007-2008. Tutte esplosioni riconducibili alla cattiva gestione del rapporto creditore/debitore gestito dalle banche che avevano portato la leva finanziaria dei depositi di garanzia a meno del 10% rispetto ai crediti emessi. Alle politiche economiche si era sostituito il mercato (imperfetto) e alla regolamentazione si preferiva il suo contrario (de-regolamentazione e laissez faire).
Le guerre non-guerre sono continuate inesorabili: 1992-93 (Somalia); 1995 (Bosnia); 1998 (Kenya e Tanzania); 1999 (Serbia); 2001 (Usa e Afghanistan); 2003 (Iraq); 2008 (Georgia); 2011 (Libia); 2013 (Mali); 2014 (Ucraina). Nonostante ciò, oggi gli indicatori economici e finanziari segnalano che dopo un quarto di secolo le economie occidentali sono retrocesse, cioè hanno bruciato la crescita, precipitando verso livelli degli anni 80. Pochi giorni fa il presidente Obama ha annunciato che siamo nuovamente in guerra non-guerra. Questa volta più ampia perché geopolitica e geofinanziaria globale. Papa Francesco non esita a definirla la “follia della terza guerra mondiale”.
Ai principi del 1989 di “pace, democrazia e libero mercato” si sono sostituiti quelli di “crescita e rigore”, al progetto di “armonia” mondiale rappresentato dall’idea unipolare del “mondo piatto” si è sostituita la rinascita dei nazionalismi e il corollario geofinanziario dei fondi sovrani. Il “multilateralismo selettivo e guidato” sta sfociando nel caos.
A 25 anni da quell’inizio ci troviamo in crisi economica grave, crisi sociale devastante, caos politico e geopolitico, e con una classe dirigente pubblica e privata avida e incoerente. Cerchiamo di capire che cosa non ha funzionato in questo quarto di secolo e di trarne le lezioni per invertire la rotta.
Prima lezione – Economia. Il ciclo capitalistico attuale trova le sue origini nelle guerre napoleoniche in Europa e Russia, e nell’espansionismo coloniale in Africa e Asia che portò all’isolamento della Cina. La sua prima mutazione avvenne con la Grande guerra (1914-18) che portò al superamento del principio di dominio e di quello di proprietà ereditaria. Infatti, dal 1920 l’ordine politico e sociale fu progressivamente ristrutturato in senso democratico. Ebbe inizio così il ciclo propriamente finanziario il cui perno era la “democrazia della proprietà”, cioè un sistema di credito (pubblico) per l’accesso e l’acquisizione della proprietà da parte delle masse che fino ad allora ne erano escluse per motivi di censo ed economici.
Simultaneamente si stabilì il principio guida (etico) della pari dignità del lavoro e del capitale nel processo di produzione, che portò a soluzioni tecniche diverse, dalla cogestione aziendale alla concertazione tra le parti sociali. In pratica, l’economia di guerra (warfare economy) fu trasformata in “economia sociale” (welfare economy), che assicurò la massa centrista di voti democratici (la classe media). A questi due fatti pregnanti nella storia dell’umanità, in contropartita, durante la Seconda guerra mondiale, si costruì il sistema finanziario approvato alla conferenza di Bretton Woods (1944) per riparare ai guasti del sistema delle banche centrali nato nel 1930 (Bank of International Settlements). Con l’esclusione dell’Urss, della Cina e di pochi altri che avevano fatto scelte più radicali in senso autarchico, al resto del mondo si impose un nuovo ordine monetario incentrato sul dollaro americano che fungeva da “moneta mondiale di riserva” con lo scopo di facilitare gli scambi.
La posizione egemone del dollaro è all’origine dello sviluppo dell’egemonia geopolitica e strategica americana. Un impero involontario, quasi riluttante. Tuttavia, la situazione egemonica ha permesso di instaurare il “sistema di debito” – tramite il signoraggio – per finanziare l’economia del dollaro e dell’Occidente. Il “sistema del debito” fu facilmente imposto agli stati vassalli, sia in Europa sia nel Terzo mondo (questi ultimi “ereditati” dall’ex Impero britannico). A partire dagli anni 80, il costo dell’egemonia americana spinse la crescita esponenziale del debito denominato in dollari, provocando le “asimmetrie di sistema” che oggi viviamo come crisi economica e sociale. Il neoliberismo è dilagato, travolgendo fedi e ideologie.
Nell’ultimo quarto di secolo i dirigenti pubblici e privati hanno dato prova di limitatezza, concentrandosi su aspetti tecnici invece che sistemici, privilegiando l’avidità invece della conservazione. Le allucinazioni del mercato e della deregolamentazione hanno annientato le capacità di progettazione e programmazione, politica, economica e sociale. Ciò spiega perché oggi siamo prigionieri della spirale del debito (crescita) e delle sole politiche monetariste (aumento della massa monetaria e tassi di interesse) che stanno sprofondando il sistema finanziario in recessione e deflazione. Per invertire la rotta, cioè per uscire dalla trappola della crescita e per dirigersi verso un’economia espansiva con uno sviluppo di stile keynesiano, oggi sarebbero essenziali le qualità e le competenze di programmazione e progettazione.
Non è un caso che la pressione tributaria, particolarmente sui salari e sui redditi, sia cresciuta esponenzialmente negli ultimi 25 anni. Essa è stata necessaria per compensare l’espansione della massa monetaria. Invece, i teorici neoliberisti sostengono che essa serva a pagare la (cattiva) gestione servizi di utilità comune. Il sistema della tassazione dei redditi fu introdotto dall’Impero britannico alla fine del XIX secolo ed è stato ereditato (nel pacchetto) dagli Usa. È evidente che tale sistema può funzionare solo in presenza di una crescita continua, altrimenti diventa recessivo oltre che vessatorio. Infatti, l’introduzione dell’imposta sul reddito negli Usa fu oggetto di un esteso dibattito politico e giuridico costituzionale nel quale si opponevano gli antesignani della destra repubblicana ereditata oggi dai “tea party”. La situazione attuale ha raggiunto l’apice della pressione tributaria sui redditi e sul lavoro, portando al crollo della domanda e quindi alla stagnazione o alla recessione.
Alle ricette neoliberiste di “aggiustamento strutturale”, cioè riforme strutturali dell’impianto istituzionale che tendono alla riduzione delle spese pubbliche per aumentare il margine tributario operativo necessario al servizio del debito, è tempo di reagire con lo spostamento del carico tributario dai redditi ai consumi. Purtroppo, oggi in Europa le componenti politiche socialdemocratiche sono molto, troppo, timide su queste questioni lasciando campo libero alle destre radicali e nazionaliste. Per uscire dalla trappola del debito si impone la necessità di una rivoluzione etica nella fiscalità e nei tributi. Questo è l’unico modo concreto per ridare fiato all’economia con una crescita reale e non contabile.
Sebbene in modo molto differenziato, i Brics pongono questa alternativa da alcuni anni, chiedendo che l’impianto di Bretton Woods venga ridiscusso per creare una “nuova governance mondiale” delle monete e dell’economia. Nonostante gli appelli di numerosi intellettuali a una conferenza Euro-Brics, la dirigenza europea è latitante su questo tema. Gli Stati Uniti e il dollaro sono in grave difficoltà, come spiega perfettamente Stefano Cingolani. Quindi, per l’Europa se non ora quando?
(1- continua)