Mujtaba Rahman, direttore per l’Europa dell’Eurasia Group (uno dei think tank più prestigiosi da qualche anno in quanto riunisce i cervelli migliori europei e asiatici), è stato secco e netto: “Un voto per il no non vuol dire un voto contro i cambiamenti”. Ancora più netto Roger Cohen, negli Ottanta corrispondente da Roma del Wall Street Journal e da tempo una delle firme di maggior prestigio (con la rubrica The Globalist) del New York Times e della rete di editorialisti del Project Syndacate: “Il forte segno di cambiamento dato dai risultati del referendum scozzese non riguarda unicamente il Regno Unito ma l’intera Unione europea”.
Tra gli aforismi di Oscar Wilde c’è quello secondo il quale le previsioni sono difficili solo quando riguardano il futuro. Non si è mai pensato che gli economisti fossero più bravi di altri nel fare previsioni, anche se si dispone di una strumentazione quantitativa abbastanza raffinata per delineare come individui, famiglie e imprese si comporteranno rispetto a segnali economici (prezzi e quantità) e quali saranno le conseguenze. Quando lavorano con storici e sociologi della politica, o quando hanno molta esperienza, gli economisti riescono a intercettare tendenze.
Circa vent’anni fa, quando si cominciava a negoziare l’unione monetaria, era stato anticipato, in lavori distinti, da Martin Feldstein, a lungo Presidente del National Bureau of Economic Research americano (nonché Presidente del Comitato dei consiglieri economici di tre Capi di Stato Usa), e da Alberto Alesina, Enrico Spolaore e Romain Wacziarg (in un saggio pubblicato dall’American Economic Review e considerato un classico del genere) che nell’Ue il rinserrarsi di regole (allora si trattava di quelle della moneta unica) avrebbe provocato tensioni centripete e secessioniste nell’ambito dei singoli Stati dell’Unione. La richiesta di “indipendenza” della Scozia dal Regno Unito e quelle della Catalogna, della Corsica e dei Paesi Baschi si pongono in questo alveo. Un movimento analogo (ma di cui si sa molto poco) è in corso nella Comunità di Stati Indipendenti (ossia alle Repubbliche uscite da quella che era l’Urss).
Ha pienamente ragione Giulio Sapelli il quale su queste pagine ha dichiarato che il risultato del referendum scozzese rappresenta per l’Ue una “vittoria di Pirro”. L’allora Presidente dalla Commissione europea José Manuel Barroso ha fatto un passo falso nell’intervenire, circa un anno fa, in quella che era una campagna elettorale interna nel Regno Unito. Hanno fatto ancora peggio quei dirigenti e funzionari della Commissione europea che, passata la nottata di fronte ai televisori ad attendere gli esiti del referendum, hanno fatto prima colazione a base di champagne,
In che modo i risultati del referendum (mostrando che il 45% degli scozzesi hanno votato per la secessione dal Regno Unito e implicitamente per una richiesta di annessione all’Ue) incidono sul resto d’Europa?
In primo luogo, nel Regno Unito il Governo e il Parlamento di Londra sono ora costretti a concedere alla Scozia la “devoluzione” e l’autonomia che hanno promesso negli ultimi giorni della campagna elettorale; altrimenti, tra qualche anno potrebbero trovarsi di fronte a un nuovo referendum in cui le percentuali di vincitori e vinti potrebbero essere rovesciate. In secondo luogo, Madrid e Parigi farebbero bene a metabolizzare la lezione del referendum scozzese e a concedere subito la massima autonomia possibile alla Catalogna, ai Paesi Baschi e alla Corsica.
In terzo luogo, in numerosi Stati neo-comunitari, i cui confini sono stati tracciati nel 1944 a Yalta, si dovrebbero prevenire, con larghe misure autonomistiche, quelli che potrebbero diventare movimenti indipendentisti. Infine, per l’Italia ciò impone una riflessione su correzioni del Titolo V della Costituzione (come modificato nel 2001) tali, però, da non essere lette come una centralizzazione forzosa e forzata.
Ciò ha chiare implicazioni economiche sia in termini di accesso ai fondi comunitari sia in termini di regolazione europea – concepita per essere diretta agli Stati dell’Ue e che ora dovrà tenere conto di nuovi “attori”.
Effetti immediati sull’unione monetaria? Forse, specialmente se dopo il referendum e tenendo conto di una delle richieste scozzesi, il Regno Unito chiederà di farne parte. È una prospettiva incerta e lontana. Ove si verificasse, l’ingresso della maggiore piazza finanziaria internazionale modificherebbe drasticamente i connotati dell’eurozona. Ad esempio, potrebbero essere modificati gli statuti della Banca centrale europea, aggiungendo, a quelli di stabilità, obiettivi di crescita e occupazione delle aree più deboli. Come nella carta della Federal Reserve americana.