Nei giorni scorsi sulle spiagge australiane il G-20 ha tirato le fila di un gigantesco fallimento dell’economia occidentale. L’epicentro della crisi è l’Europa. Tutti i dati statistici lo documentano con eloquenza. Non a caso in questo stesso lasso di tempo i Brics hanno deciso di dar vita a una nuova banca dei pagamenti internazionali, che si pone come potenziale contraltare al Fmi e alla Banca Mondiale, e a Dushanbe Putin ha presieduto il gruppo di Shangai che incorpora in sé, oltre alla Russia e ai suoi satelliti dell’Asia Centrale, la Cina. La stessa Cina che ospiterà il nuovo Fmi alternativo che avrà alla sua testa un indiano, a riprova della dislocazione degli equilibri di potenza in atto in Asia. Essi sono equilibri di conciliazione e di condivisione tra nemici storici che ora, invece, ricercano insieme una via di uscita dalla crisi.
Tutto il contrario invece accade in Occidente: ossia in Usa, Uk (appena uscito dalla sconfitta di misura del referendum scozzese) Canada e Giappone (che condivide sia il destino asiatico, sia quello occidentale dopo la Seconda guerra mondiale e il conflitto con la Cina). L’Occidente è diviso con la Bce a guida teutonica ma a presidenza emasculata nordamericana (un ossimoro che andrà studiato in futuro con grande attenzione): la politica di deflazione non solo continua, ma è così profonda che il cavallo non beve. I crediti concessi alle banche per cercare di riversare un po’ di denaro verso le imprese e le famiglie non vanno nel verso giusto, ossia le banche stesse non ne richiedono quanto i cantori delle misure monetariste avrebbero auspicato.
Il problema è che se non si curano i bilanci delle banche, queste rivelano tutta la loro debolezza soprattutto dinanzi a imprese colpite da una domanda scarsa e non più sostenute (com’ era prima delle nefaste privatizzazioni di trent’anni fa circa) da investimenti pubblici che fungevano da procurement per le piccole e medie e grandi imprese private. Le garanzie che promuovevano l’investimento non esistono più. E quindi le imprese non chiedono denaro che non saprebbero come impiegare. Aggiungiamo il fatto che – similmente a ciò che accadde in Giappone un ventennio or sono – le banche europee hanno sì fatto pulizia nei bilanci, ma hanno applicato le regole del mark to market solo ai prestiti e non ai titoli, evitando le vere svalutazioni, non ponendo le vere basi per un’efficace ed efficiente svalutazione. Per questo il cosiddetto T-Ltro, ossia i prestiti vincolati alle banche affinché diano credito alle imprese, ha avuto così scarso successo.
Sarà invitabile, allora, collateralizzare i debiti, come annunciato dall’ineffabile e inefficace Draghi alcuni mesi or sono e ripetutamente sussurrato a borse aperte giorno dopo giorno. Le Assets backed securities sono però potenziali armi di distruzione di massa che possono indebolire la Bce ma non spostare di un bel nulla la situazione.
E questo perché non si va alla radice del dramma in corso. Ossia, cambiare la politica monetaristica e fare la famosa mossa del cavallo: ampliare sì la domanda interna, ma soprattutto iniziare una nuova politica di investimenti pubblici, che Juncker ha fatto intravedere ma che oltre a non essere iniziata è gravemente insufficiente.
Occorre radicalmente cambiare strada, se non lo si farà le conseguenze saranno anche di mutamento strategico di potenza, con un’Asia e una Russia sempre più asiatica e sempre meno europea che riempiranno il vuoto della lenta ritirata degli Usa dal dominio mondiale nonostante il pericolo mortale dell’Isis.
Per capire veramente cos’è cambiato in questi ultimi anni, bisogna, però, risalire non alla crisi in corso ma alle sue origini. Si tratta di vari fenomeni solo apparentemente distinti ma l’un con l’altro legati. L’uno risale al crollo del sistema di Bretton Woods tra il 1971 e il 1973, quando il dollaro smise di essere moneta di riferimento e ci si avventurò in un sistema mondiale di alti tassi di interesse e di profonda volatilità dei rapporti tra le valute. L’eccesso di liquidità che si creò, grazie all’intensificazione dei rapporti oligopolistici sul fronte del commercio mondiale delle materie prime, generò un profondo spostamento tra valore della produzione e del plus-lavoro che ne derivava e valore della circolazione monetaria che iniziò a valorizzarsi a tassi molto più forti di crescita di quanto non fosse in passato di per se stessa e con se stessa.
La circolarità denaro-merce-denaro, dove il denaro finale era naturalmente superiore a quello iniziale realizzandosi nella produzione come plusvalore, non era più sola. Al suo fianco il denaro diveniva merce di se stesso attraverso una grande trasformazione dei meccanismi e delle regole di scambio (derivati et similia, scambiati in shadow banks e in shadow pools) per creare ulteriori masse di denaro da valorizzare a loro volta. Contestualmente il managerial capitalism, dove la proprietà era divisa dal controllo e il manager dominava l’azionista, veniva via via sostituito dall’owner capitalism, dove nominalmente l’azionista domina il manager, mentre in effetti è quest’ultimo a dominare l’azionista stesso, come dimostrano le stock options e le vertiginose ascese di stipendi variabili dei top-manager. Mentre si celebra lo share holder value si festeggia invece il predominio dei manager superpagati secondo algoritmi sconosciuti tanto agli azionisti quanto ai capitalisti.
L’inizio di questa intersezione tra owner capitalism, dominato dai manager stockoptionisti, e lo sviluppo delle forze produttive ha la sua acme nel lungo ciclo ininterrotto di crescita dell’economia statunitense, che dura dalla fine degli anni Ottanta fino alla prima metà del primo decennio del secondo millennio. Alla base di questo lungo ciclo, in cui pareva che il capitalismo non avesse più crisi, stava l’intersezione dell’owner capitalism con l’Itc, ossia con quel nuovo ciclo Kondatrieff di grappoli di innovazione nel campo delle telecomunicazioni, della valorizzazione sul piano spaziale dell’elettromagnetismo e insieme della miniaturizzazione tipica delle terre rare.
La produttività del lavoro crebbe a dismisura. Questo per due fattori: il primo fu l’abbassamento dei costi di transazione – tempo e spazio tendevano ai costi zero; il secondo fu l’aumento della produttività del lavoro che non a caso avvenne nei sistemi sociali in grado di sviluppare quote crescenti di plusvalore contestualmente alla creazione di enormi masse di domanda interna. La domanda pareva diventare l’elemento essenziale, non solo nei mercati dove questo processo ebbe inizio, in primis il mondo anglosassone a common law, ma anche in misura minore nell’Europa continentale a sistema giuridico romano-germanico. I mercati dovevano essere creati in quelli che un tempo si chiamavano paesi in via di sviluppo e che oggi si chiamano Brics.
E ora i Brics si stagliano nel nuovo sistema mondiale di potenza che è caratterizzato dalla spaccatura dell’Occidente e dal lento ma costante riavvicinamento delle faglie orientali di potenza. Le banche centrali, come sempre, sono il sismografo più sensibile di questi mutamenti.