Ma che succede alla Germania? Cala l’indice della fiducia, perde colpi l’economia della locomotiva d’Europa. La destra denuncia il calo di competitività del made in Germany, la sinistra fa il punto sui sacrifici, in termini di salari e di spesa pubblica, che comporta l’austerità. Da una parte Werner Sinn, il presidente dell’Ifo che guida i falchi, lancia l’allarme sul minor appeal dell’export della Germania federale, sotto pressione sul fronte orientale. Dall’altra Marcel Fratzscher, economista vicino ai socialdemocratici, ha appena dato alle stampe L’illusione tedesca, spietato ritratto di un Paese che perde colpi nella crescita, nella produttività e negli investimenti, dove due cittadini su tre vantano un reddito reale inferiore rispetto all’anno Duemila. “Un Paese – scrive con una punta di sarcasmo – vende automobili di alta qualità e macchinari in tutto il mondo, ma quando l’intonaco comincia a scrostarsi dai muri di una scuola elementare sono i genitori a dover raccogliere il denaro per pagare l’imbianchino…”.



Insomma, un Paese sostanzialmente non conosciuto e non capito in Italia, nonostante nessuna nazione abbia più importanza per noi dell’eterno vicino-rivale del Nord. Un Paese che ha affrontato con la solita, proverbiale serietà l’avventura europea, ma che ora, incapace com’è di assumere fino in fondo il ruolo di leader, minaccia di affondare nelle sue contraddizioni. Le riserve delle aziende tedesche, si legge nell’analisi di Fratscher, assistente del ministro socialdemocratico Sigmar Gabriel, ammontano a quasi 500 miliardi di euro. Ma gli investimenti non decollano. Anzi, la loro proporzione rispetto al giro d’affari è caduta da poco meno del 21% nel 2000 a poco più del 17% nel 2013. A conferma che il malessere che percorre l’Ue, cioè la caduta di fiducia che si traduce in un calo degli investimenti (e, di riflesso, dell’occupazione), non è un’esclusiva dell’Europa mediterranea.



“Molte aziende – rileva l’autore – hanno effettivamente ridotto le loro spese per macchinari e computer nel corso degli ultimi decenni, secondo i dati dell’Ufficio statistico federale. Questo è vero specialmente per l’industria chimica, ma anche le infrastrutture industriali stanno crollando, per esempio nei settori dell’ingegneria meccanica e dell’elettronica”. In realtà, le imprese tedesche investono, ma non in Germania. La Bmw, casa automobilistica bavarese, sta attualmente spendendo un miliardo di dollari per trasformare il suo impianto a Spartanburg, nella Carolina del Sud, nel suo più grande stabilimento a livello globale. La Daimler ora assembla la nuova classe C per il mercato americano nella città di Tuscaloosa, in Alabama. Dürr, il produttore di attrezzature per la verniciatura, ha ampliato i suoi edifici industriali a Shangai lo scorso anno, in modo che essi ora hanno raggiunto le stesse dimensioni di quelli della sua sede centrale a Bietigheim-Bissingen, vicino a Stoccarda.



Nel corso del solo mese di settembre si è registrata una vera e propria corsa allo shopping negli Stati Uniti: più di 50 miliardi di dollari investiti in gruppi americani. Comprano le aziende di servizi come Sap, produttori di chips come Infineon, colossi del pharma come Merck. E così via. È un fenomeno relativamente nuovo, ben diverso dalle delocalizzazioni produttive degli anni Novanta nell’Est Europa, motivate dalla ricerca di manodopera a buon mercato, o dell’avanzata in Cina o Sud America alla conquista di nuove posizioni nell’economia globale. No, stavolta a condizionare le scelte delle imprese sono le leggi volute da frau Merkel per assicurarsi nella passata legislatura il sostegno dei Verdi a danno dei socialdemocratici. E così da quando il boom del fracking ha ridotto i costi dell’energia, gli Stati Uniti sono diventati in modo particolare il sito preferito per le aziende tedesche.

In maggio, il ceo di Basf, Kurt Bock, ha annunciato un nuovo piano di investimenti da un miliardo di euro, il più grande nella storia dell’azienda, nella Costa del Golfo americano. Nello spiegare la decisione, la dirigenza ha fatto notare che il gas naturale negli Stati Uniti costa solo un terzo di ciò che costa in Germania. Il gigante tecnologico Siemens è andato anche oltre, annunciando, dopo l’acquisto della texana Dressler, che in futuro gestirà il suo intero business dagli uffici negli Stati Uniti.

Un trend che ha senz’altro accentuato la discesa dell’euro nei confronti della valuta Usa, come del resto auspicato dalla Bce. Ma che è anche la punta dell’iceberg di un disagio che sta erodendo le certezze dell’ammiraglia dell’economia e della politica europea. Un’inquietudine che accomuna destra e sinistra. Falchi e colombe, uniti nella diagnosi, ma non nella terapia. È in questa cornice che, tra una settimana, Mario Draghi presenterà al direttorio della Bce, in trasferta a Napoli, il piano dettagliato degli acquisti di Abs da abbinare ai prestiti Tltro. Ma non è difficile prevedere che in quella sede si parlerà soprattutto di Quantitative easing, ovvero l’acquisto di titoli di Stato, l’unica mossa che potrebbe riportare il bilancio della Bce ai livelli del 2012, con un’espansione di almeno mille miliardi.

Il condizionale però è d’obbligo, visto il fuoco di fila dei falchi. Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, ha detto che gli acquisti di Abs avvantaggeranno solo i banchieri, non l’economia. Il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, ha rincarato ieri la dose: “Non sono contento per il piano Draghi”, ha detto in Parlamento evocando il rischio dei conflitti di interesse tra la banca centrale che da una parte presta soldi agli istituti di credito, dall’altra si appresta ad assumere il ruolo di controllore del sistema. Ancor più insidiosi i siluri che stanno partendo dalla Corte Federale di Karlsruhe: gli acquisti di titoli previsti dalla Bce, sembra la tesi di maggioranza tra i giudici, violano i trattati istitutivi della Banca centrale europea.

Un vero e proprio fuoco di fila che Draghi non potrà superare se non avrà dalla sua, come già è avvenuto in passato, Angela Merkel. Ma lo spazio di manovra della Cancelliera è davvero stretto: i sondaggi danno in forte ascesa l’Afd, il partito anti-euro che sfiora il 10% dei consensi. A sua volta, l’avanzata degli euroscettici mette sotto pressione la Cdu, con il circolo di Berlino, costituito dai neo-con democristiani, che è ormai una spina nel fianco per la Merkel: difficile che la Cancelliera possa offrire il suo pieno appoggio a Draghi.

Soprattutto se, nel frattempo, dall’Italia continueranno ad arrivare, invece delle riforme, azioni di disturbo al Governo. Nella speranza, chissà perché, che sia necessario ricorrere a un intervento esterno per far marciare quei cambiamenti che tardano da decenni.