“Continuiamo ad appoggiare l’agenda di riforme del presidente Renzi”: Sergio Marchionne da Auburn Hills, quartier generale della Chrysler, ha messo a tacere ogni eventuale dubbio a cominciare da quelli davvero pesanti di Ferruccio de Bortoli, direttore de Il Corriere della Sera, quotidiano controllato dalla Fiat. E Matteo Renzi ha ricambiato: “Io sto dalla parte di Marchionne senza se e senza ma”. Perché i due si piacciono e si sostengono a vicenda? I motivi sono parecchi, ma alla base di tutto ce n’è uno: entrambi vogliono regolare i conti con il sindacato, soprattutto con la Cgil.
Gli argomenti e le critiche dell’editoriale debortoliano sono riecheggiati nel duro attacco che Diego Della Valle ha rivolto a Renzi, oltre che allo stesso Marchionne (“due sola”, ha detto in romanesco, due che danno fregature), dagli schermi di Otto e mezzo su La7, proprio mentre il capo del governo parlava a Detroit. Il patron della Tod’s è il secondo socio del Corsera e il proprietario della rete televisiva, Urbano Cairo, è a sua volta azionista; il primo conduce una battaglia parallela per limitare il potere della Fiat sullo storico quotidiano della borghesia, l’altro potrebbe essere suo alleato. Della Valle si è spinto più in là, prefigurando un impegno in politica e proclamando che questo Governo non è l’ultima spiaggia. Nel pomeriggio la Cei per bocca del segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, aveva sferrato una critica solenne e pesante invitando Renzi a parlare meno e fare di più, anzi addirittura a “cambiare agenda”, quella stessa che tanto piace a Marchionne.
Lo scontro politico, dunque, in un solo giorno ha toccato un livello che non si era ancora visto prima. Cosa c’è dietro? C’è che la luna di miele renziana è finita. C’è l’insoddisfazione di un Paese stremato (psicologicamente ancor prima che economicamente), ricaduto per la terza volta in recessione mentre il Governo aveva detto che sarebbe cominciata la ripresa.
Sbagliare le previsioni è un’abitudine e non solo italiana, anche la Bundesbank nel suo ultimo bollettino giurava che le cose in Germania sarebbero andate per il meglio, invece è vero il contrario. Quanto alla Banca centrale europea, non ha capito che l’intera eurozona sta precipitando nella stag-deflazione, una miscela micidiale di crescita zero e prezzi negativi che prelude a una vera e propria depressione.
Dunque, durante l’estate le cose sono girate in senso negativo un po’ ovunque, ma in Italia peggio che altrove. Mentre le promesse del Governo sono rimaste nel cassetto oppure non hanno ottenuto il risultato sperato (come nel caso del bonus di 80 euro). È facile capire, dunque, perché lo scontento diventi aperta protesta. Il mondo imprenditoriale è diviso tra gufi delusi (come Della Valle) e gufi d’antan. L’unico a restare decisamente al fianco di Renzi è Marchionne, fino al punto di esporsi in modo inusuale per il capo di un gruppo ormai multinazionale e sempre meno italiano.
Ci possono essere molte spiegazioni umane (il feeling personale tra due “rottamatori”) e utilitaristiche (in Italia e in Europa è buio pesto per la Fiat che deve ricorrere di nuovo alla cassa integrazione). Non solo: negli Usa l’industria dell’auto corre anche perché è stata ristrutturata con l’aiuto dello Stato e oggi è sostenuta dal credito facile (i prestiti subprime vengono usati per comprare vetture a quattro ruote). Se il Governo italiano rilanciasse la domanda interna o sostenesse l’automobile le cose andrebbero meglio anche per la Fiat. Ma ci sono motivi d’interesse anche dietro le bordate di Della Valle (lo scontro su Rcs o la crisi di Italo, come è stato detto più volte).
Tuttavia, l’alleanza tra il manager dal pullover nero e il Premier in camicia bianca ha dietro il comune obiettivo di chiudere l’era della conflittualità permanente. L’articolo 18 è solo una tappa in questo cammino. Per Renzi significa ripetere in Italia quel che ha fatto Tony Blair in Gran Bretagna. Per Marchionne vuol dire portare a compimento quella profonda trasformazione nell’organizzazione produttiva e nell’uso della forza lavoro che ha realizzato negli Stati Uniti e ha cominciato a Pomigliano d’Arco.
Negli Usa il sindacato dell’auto, tradizionalmente il più forte e militante tra le organizzazioni dei lavoratori, è diventato uno che risolve i problemi, in Italia è uno che li crea: da una parte un problem-solver dall’altra un trouble-maker. Lo scontro è stato durissimo anche a Detroit, tanto che quando cinque anni fa venne firmato l’accordo tra Fiat e Chrysler il rappresentante dello United Auto Workers rifiutò di stringere la mano a Marchionne accusandolo di voler “distruggere un secolo di contrattazione sindacale in America”. Oggi il nuovo capo dello Uaw è arrivato ad abbracciare in pubblico il top manager indicandolo come un esempio di collaborazione diretta tra operai e impresa.
Anche in Italia negli stabilimenti dove la base ha accettato (la Fiom dice ingoiato) la linea Marchionne, il nuovo sistema ha fatto passi avanti, è caduto l’antico sistema piramidale Fiat per creare una organizzazione orizzontale. Ma le resistenze sono ancora forti, e in ogni caso scavalcare i sindacati esterni, soprattutto la Fiom, resta ancora difficile.
Marchionne, dunque, ha bisogno che il potere sindacale abbia un sostanzioso ridimensionamento su scala nazionale e anche a livello politico. E ne ha bisogno anche Renzi il quale gioca una partita decisiva per assumere il controllo non solo e non tanto del Partito democratico, ma del reticolo di potere che lo sostiene, al centro del quale c’è ancora la Cgil.
Ma se questa è la posta, perché una parte consistente del patronato (soprattutto i vertici della Confindustria) è contrario? Solo perché Renzi fa troppe promesse? Molti hanno fatto lo stesso prima di lui con il plauso confindustriale. In realtà, anche qui c’è dietro la difesa di un potere, quello che per decenni è stato chiamato consociativo, in base al quale le materie che riguardano il lavoro (e in ultima istanza la distribuzione del valore aggiunto tra salari e profitti), debbono essere regolate in un triangolo tra Governo, padronato e confederazioni sindacali. Naturalmente ci sono molti imprenditori che in cuor loro danno ragione a Marchionne, ma sono troppo piccoli e deboli per rompere le uova nel paniere come ha fatto la Fiat.
Nessuno, d’altra parte, può giurare che l’entente cordiale duri. Fin dai tempi di Vittorio Valletta e di Gianni Agnelli la Fiat si definiva governativa per vocazione (oltre che per interesse). Ciò vuol dire che cambiava il proprio sostegno al cambiare del Governo. E nessuno esclude che accada ancora. Anzi. Marchionne, però, continuerà a puntare le sue carte su Renzi perché è l’unico ad aver sfidato apertamente i tabù sindacali e il patto neo-corporativo. Non lo ha fatto nemmeno il centrodestra e, se Renzi fallisce, non lo farà più nessuno.