Lo sapete che gli Usa sono il peggior debitore subprime del mondo? No? Bene, vi spiego il perché. È da poco passato il sesto anniversario del crollo di Lehman Brothers, l’evento simbolo della grande crisi finanziaria e quello che ci ha lasciato in dote la concezione ormai diffusa a tutti i livelli sociali in base alla quale la ragione di quel fallimento fosse legato ai famigerati subprime, ovvero il fatto che banche e istituzioni finanziarie prestassero denaro a cittadini che non avevano palesemente i mezzi per ripagare quel debito. Da qui, la destabilizzazione del sistema finanziario. Oggi nessuno parla più di subprime, nonostante siano ancora ben presenti soprattutto nei prestiti scolastici e nel credito al consumo (in particolare, il settore automobilistico), ma c’è un soggetto che si comporta esattamente come quei cittadini che volevano vivere al di sopra dei loro mezzi, peccato sia di dimensioni un pochino più grande: il governo degli Stati Uniti.
Certo, non si possono usare i codici di classificazione Fico (tabelle utilizzate negli Usa e che determinano il grado di solvibilità dei soggetti che accedono a prestiti e mutui di vario genere) per le nazioni sovrane, ma prendiamo ad esempio i principali tipi di prestito che suscitano il maggior interesse tra i clienti subprime e vedrete poi come il governo Usa li stia di fatto utilizzando, pur su piani differenti, per finanziarsi e finanziare il proprio debito.
Il primo è il mutuo a tasso variabile o aggiustabile, con un tasso di ingresso basso per un breve periodo e poi destinato a salire. Il secondo è il cosiddetto “interest only loan”, ovvero un prestito per il quale a fronte di una somma di denaro erogata, il contraente per un periodo può pagare solo l’interesse disinteressandosi del capitale. Il terzo è il caso più estremo di “interest only loan”, il prestito ad ammortizzazione negativa, in base al quale non solo il pagamento non riduce il capitale del prestito ma non copre nemmeno tutto l’interesse accumulato: quindi, ogni mese il contraente scivola sempre più in una condizione di debito, visto che l’interesse va a unirsi al capitale da ripagare. Ma torniamo al debito.
Nel picco della crisi, molti analisti e commentatori si concentrarono su due misuratori della stabilità finanziaria di un governo, la ratio debito/Pil e quella deficit/Pil: nel 2010 il governo federale Usa presentava una ratio deficit/Pil di quasi il 10%, la più alta dalla Seconda guerra mondiale, mentre ad oggi la ratio debito/Pil è al 102%, escludendo però le liabilities del programma Medicare. Numeri alti, ma alla fine il denominatore in entrambe i casi è il reddito totale degli Usa, non solo quello governativo: il problema vero è che Washington non solo spesso si finanzia a debito, ma lo fa indebitandosi molto rispetto alle sue disponibilità, visto che nel 2009 furono presi a prestito l’85% in più di quanto non venisse introitato con le tasse. Il guaio quindi non è riportare la ratio deficit/Pil in area 4%, ma il fatto che ancora oggi il governo abbia bisogno di prendere a prestito più del 20% del suo reddito solo per mantenere in vita queste operazioni di finanziamento.
Lo scorso anno, l’ammontare lordo del debito detenuto dal governo federale era circa 5,5 volte il gettito fiscale, l’equivalente di qualcuno che guadagna 30mila dollari l’anno avendo un debito detenuto di 165mila dollari. Guardate questo grafico: ci mostra la media ponderata della scadenza del debito federale Usa in circolazione e come possiamo notare lo scorso anno questa media era di 5,5 anni.
Insomma, circa metà del debito Usa è nell’arco temporale dei tre anni, mentre due terzi pieni vanno ripagati entro cinque anni, una situazione non di brevissimo termine ma nemmeno un sorta di mutuo a tasso fisso, tanto più che la Fed ha espressamente dichiarato di basare la sua politica sull’ottenimento di un tasso di inflazione più alto che porterà con sé tassi di interesse più alti, una maledizione per la solvibilità di quel debito visto che il Treasury sarà obbligato a prendere a prestito denaro a un costo più alto.
Fin qui la comparazione tra il primo tipo di prestito subprime di cui vi ho parlato, ma vediamo le altre, ovvero l’interest only e il negative-amortization. Nell’ultima decade il Treasury Usa ha sottopagato le sue spese annuali di interessi sul debito per circa 200 miliardi all’anno, addirittura l’anno scorso la voce pagamento interessi sul debito era pari solo al 5% del gettito fiscale: ovviamente, questo ammontare va a unirsi al capitale e ogni anno innalza il livello di indebitamento lordo del governo federale. Certo, non si può definirlo in pieno un negative-amortization loan su larga scala, ma l’effetto finale è lo stesso: insomma, non solo il governo Usa si indebita nello stesso modo di quei soggetti subprime che hanno destabilizzato il sistema finanziario ma lo fa su scala globale.
Nel 2008, c’erano circa 15 triliardi di dollari di mutui erogati, circa il 100% del Pil Usa di quell’anno, molti dei quali non erano ovviamente subprime, ma per fare un paragone oggi ci sono due triliardi in più di quell’ammontare di debito federale, la maggior parte del quale è ripagato con condizioni molto simili a quelle dei debitori subprime, con la differenza che se la base fiscale non è sufficiente a colmare il gap della voce di pagamento sul debito, il governo può alzare o introdurre nuove tasse, mentre i creditori subprime hanno perso casa, lavoro, auto.
E ora la domanda finale e più importante: chi presta denaro al governo federale Usa? Ancora una volta, se la storia si ripeterà come sei anni fa, dovremo puntare il dito contro banche e istituzioni finanziarie che hanno concesso credito a un soggetto palesemente già oggi non in grado di ripagarlo? In parte sì, ma ci sono anche moltissimi dei cosiddetti “little people”, la media e piccola borghesia, che ha in portafoglio di investimento dei T-bills, il problema è chi fa la parte del leone in questo schema destinato ad andare fuori controllo: la Fed. Prima della crisi, la Banca centrale Usa aveva mantenuto i propri acquisti di Treasuries stabili e a un livello relativamente basso, circa il 6-7% del totale emesso fino al 2007, ma nell’arco di due anni – ovvero nel 2010 – oltre la metà del debito Usa era stato comprato dalla Fed e anche oggi che il programma di “tapering”, ovvero la rimozione graduale del programma di stimolo, sta per concludersi la Banca centrale compra oltre il 40% del debito federale. Insomma, il Treasury e più in generale il Congresso che permettono questa gestione subprime del debito Usa sono da condannare, ma, come dice un vecchio adagio, bisogna essere in due per ballare il tango: la politica ci mette la volontà di spendere e indebitarsi e la Fed ha loro concesso i mezzi per poterlo fare.
Cosa farà la Fed alla fine del prossimo mese, quando stando alle dichiarazione di Janet Yellen il Qe terminerà definitivamente? Smetterà di comprare Treasuries con il badile, rischiando di destabilizzare la già precaria gestione del debito del governo federale facendo venire a mancare il principale acquirente di titoli di Stato (oltre a schiantare i corsi rialzisti a Wall Street) oppure sarà costretta ad ammettere che le condizioni macro non sono ancora a posto del tutto, rinviare il “taper” definitivo all’inizio del nuovo anno e nel frattempo attendere che sia un bell’evento bellico o l’impulso dell’industria della sicurezza e della lotta al terrorismo a fungere da driver del Pil, agendo sul denominatore?
Io propenderei per la seconda ipotesi, non so voi. Guarda caso, giovedì pomeriggio il tonfo di Wall Street che ha trascinato al ribasso tutte le Borse europee non è stato alimentato solo dall’acuirsi delle tensioni tra Russia e Ucraina (l’Alta Corte di Mosca sarebbe pronta a dare il via libera alla confisca di assets stranieri su suolo russo) e per le dichiarazioni del governatore della Bank of England rispetto a un aumento anticipato dei tassi di interesse ma anche per la pubblicazione dei dati riguardanti gli ordini dei beni durevoli negli Usa, scesi ad agosto del 18,2% su base mensile, mentre dalla lettura flash l’indice Pmi dei servizi è scivolato sui minimi da maggio a 58,5 punti. Quando si dice le coincidenze fortuite.