La situazione mondiale impone all’Europa di sviluppare al più presto una nuova strategia interna ed esterna. Da un lato, la situazione interna non può più essere gestita secondo i parametri dell’ormai superata “economia della conoscenza” – idea mutuata dalle teorie della sovranità – ma deve adattarsi al cambiamento fondamentale dell’era digitale che richiede una mentalità fondata sui parametri nuovi della “economia della condivisione”. D’altro lato, la situazione esterna impone lo sviluppo di una struttura concettuale che superi le strettoie della sovranità per gestire la complessità del policentrismo imperfetto e asimmetrico in forza delle diseguaglianze e delle diversità. Continuare a fare “aggiustamenti” secondo le logiche del “concerto delle nazioni”, seguendo la linearità di un mondo etnocentrico e unipolare ormai agonizzante, porterà al suicidio dell’Europa e dei suoi cittadini.



Questo nuovo Parlamento e questa nuova Commissione europea sono chiamati a sprigionare le forze nuove che ancora esistono nel continente e ad adottare sin da subito una rivoluzione culturale che eviti: a) la restaurazione dei sistemi nazionali di potere; b) la contrapposizione tra blocchi di nazioni, a livello europeo e mondiale: c) il riarmo convenzionale e nucleare, d) la rinazionalizzazione dei commerci, dei capitali, e delle infrastrutture economiche; e) la prevalenza del concetto di mutua difesa su quello più inclusivo e olistico di mutua solidarietà.



Sul piano interno non è pensabile perseguire nel conclamato fallimento delle politiche neoliberiste – un’ideologia costruita da Milton Friedman negli anni ‘60-’70 intorno a un fine e a un mezzo e con la premessa di mondo ideale in cui domanda, inflazione, disoccupazione funzionano alla stregua di forze naturali, e il mercato è immaginato come un ecosistema in grado di l’autoregolarsi – che hanno portato all’applicazione umiliante e nefasta degli “aggiustamenti strutturali” imposti alle nazioni attraverso misure drastiche di deregolamentazione, privatizzazioni e riduzione della spesa sociale. Applicate sulla base di una decisione politica dettata dal tracollo del sistema occidentale tra il 1969 e il 1973 che ha trovato il suo stratega in Henri Kissinger e i suoi rappresentanti politici da Reagan e Thatcher fino a quelli dei nostri giorni.



Un’ideologia tanto disastrosa quanto lo è stata quella del marxismo economico e sociale. Resta il fatto che quest’ultimo ormai non è reclamato che in Corea del Nord mentre il primo è diventato l’ideologia dominante su scala mondiale, soprattutto dopo l’implosione dell’Urss nel 1989. Oltre al disastro sociale, l’ideologia neoliberista ha permesso l’emergere di “mostri” che, in forza dell’imperfezione del sistema, hanno potuto proliferare fino a minacciare la pace e la sicurezza di molte popolazioni e nazioni sul pianeta.

La contraddizione che viviamo in tutta la sua potenza è tra il mondo della sovranità, che nel suo corollario è divenuto unipolare, e quello aperto scaturito dall’era digitale. La drammatica crisi in Ucraina e quella ancor più drammatica in Medio Oriente rappresentano lo scontro tra idee incompatibili. Da un lato, la flessibilità dell’accesso al benessere – frutto del commercio e dello sviluppo socio-economico – e, dall’altro, la resistenza delle logiche e della rigidità della sovranità. Ciò dimostra che il neoliberismo era appunto un’ideologia e non una scienza.

La rivoluzione digitale, incautamente lanciata proprio dagli ideologi neoliberisti alla fine degli anni ‘80, sta mostrando a tutti i limiti intrinseci che la resistenza difensiva propugna. Le democrazie sono i sistemi di governi più esposti alle sfide del mondo digitale, ma anche i sistemi autocratici sono in grande difficoltà. L’ecosistema digitale (cyber environment) è ben diverso da quello fisico, territoriale, antropologico-culturale, che ha caratterizzato la millenaria storia dell’umanità. Nell’ecosistema digitale non esistono frontiere fisiche, il bisogno è la condivisione e non l’appropriazione della conoscenza, i parametri spazio-temporali sono quelli dell’immediatezza e non già quelli deduttivi, programmatici e progressivi del mondo cartesiano.

A nulla serve adattare i vecchi sistemi sociali, economici, educativi, di difesa e di sicurezza al mondo digitale. Sono ferri vecchi destinati a essere rottamati! Di conseguenza anche l’impianto concettuale della politica e le sue strutture non possono più resistere all’onda d’urto che si sta velocemente propagando. Dal sistema proprietario – dal quale a livello statale deriva l’idea della sovranità – si è passati negli ultimi 15 anni a quello più progressivo e inclusivo del “global common”, che si potrebbe tradurre nel “demanio globale”.

I giovani del mondo sotto i 25 anni, che non risiedono in larga maggioranza in Europa, pensano secondo questi nuovi parametri. Immaginare di imporre le logiche della sovranità sarebbe compiere un gigantesco genocidio che, peraltro, rischia di non riuscire a compiersi. Le religioni tradizionali ne sono coscienti e cercano di innovarsi, ma sono i nuovi fanatismi di ispirazione religiosa che guadagnano velocemente terreno proprio tra i giovani. Gli stati, le alleanze di stati, le organizzazioni sopranazionali e universali, stentano ad accettare che i loro metodi logici risultano ormai perdenti e finanche contro produttivi. Eppure, le dure lezioni che il realismo della guerra ha inflitto agli Usa in Iraq e Afghanistan, oltre ai fallimentari tentativi di stimolare rivoluzioni colorate o stagionali, dovrebbero convincere che i metodi utilizzati non raggiungono i fini desiderati.

Gli Usa sono prigionieri involontari della loro egemonia (anch’essa involontaria). Invece, l’Europa ha perso l’egemonia molti decenni fa e ha anche attraversato i periodi bui delle due guerre mondiali e della Guerra fredda. Da quelle esperienze l’Europa è riemersa, con il sostegno economico e finanziario americano, ma non ha saputo cambiare per tempo i parametri culturali del proprio pensiero. Adesso, l’Europa è di fronte all’alternativa di diventare una periferia dell’impero americano (Nato e Ttip) oppure riscattarsi abbandonando il neoliberismo, e le sue conseguenze gravi politiche e sociali, attraverso l’elaborazione di un progetto concettuale nuovo.

Le piccole e modeste modifiche dell’esistente – spacciate sotto l’accattivante titolo di riformismo – non salveranno il continente. È un compito generazionale che ormai supera le divisioni tra socialisti-democratici e conservatori-popolari, ma richiede la convergenza di tutti per produrre il nuovo. Non si può ignorare che il mondo, entro il 2020, vivrà con 26 miliardi di apparecchi connessi alla rete (oggi sono 11,4 miliardi), i dati che transiteranno nei data center saranno 13 Zbytes (1 zbyte è equivalente a 10²² bytes, e oggi sono 3.3 zbytes), e già i dati disponibili sulla rete sono oggi 40 zbytes (Google riesce a leggerne solo l’1%). Questi dati impongono un cambiamento fondamentale di come si immagina e si concepisce il mondo, la politica, la società e l’economia.

Augurandoci che non si producano catastrofi planetarie generate dall’ottusità umana – ad esempio, attacchi devastanti di tipo atomico, batteriologico, o peggio cibernetico o climatico – le attuali politiche di difesa, sicurezza, organizzazione sociale e dell’economia, risultano assolutamente aliene rispetto alla realtà che si sta dipanando sotto i nostri occhi. Solo le prime riuscirebbero a imprigionare ampie aree del mondo in un nuovo Medioevo. Per queste ragioni, lo sviluppo veloce e sostanziale di un nuovo “concetto strategico” s’impone in modo particolare per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea.

La neo nominata Federica Mogherini, Alto Commissario per la politica estera dell’Ue e Vice Presidente della Commissione europea, ha come priorità massima di produrre un tale “concetto strategico”. Questo ben prima di qualsiasi aggiustamento funzionale del suo ruolo all’interno dell’amministrazione europea. Lei stessa ha detto dopo la designazione che si tratta di “un compito immane”. Questa coscienza dell’imponenza e dell’urgenza del compito cui è chiamata richiede che ella riesca a evitare di essere travolta dagli amministratori conservatori – già la nomina di un veterano della Commissione, Stefano Manservisi, come suo capo di gabinetto solleva non pochi dubbi – invece chiedendo sostegno sostanziale all’esterno delle strutture europee per generare un progetto strategico credibile e sostenibile.

A tal proposito potrebbe esserle di sostegno un forum interdisciplinare che coinvolga europei, americani ma soprattutto i Brics, cioè quelli che una volta erano i paesi in via di sviluppo (e che ignominiosamente l’Europa chiama ancora “paesi terzi” raggruppati in un acronimo mostruoso e insignificante: Acp).

L’Europa pesa ancora per il 19% del Pil mondiale, ben più della Cina o dell’insieme dei Brics. Ma il tempo stringe. Le prospettive economiche elaborate da Citi Group nel 2011 mostrano (grafici qui sotto) che il mondo non sarà più lo stesso.