I sussurri diventano grida tra le mura dei palazzi dell’eurozona. È un susseguirsi di voci che non si fermano più e che non a caso coincidono con il cambio della guardia delle cuspidi eurocratiche: Juncker arriva e con lui i nuovi commissari, ancora avvolti nella maggior parte dell’incognito della corsa all’ultimo miglio. Bene per la Mogherini, che farà meglio di quanto non si pensi e non potrà che onorare al meglio la presidenza italiana. Tragica invece la nomina del polacco Tusk alla presidenza del Consiglio: non parla né inglese né francese ed è sordo a ogni insegnamento economico che non sia quello del pallottoliere liberista. È un prezzo pagato all’ala revanscista non in economia ma in politica estera o meglio nella definizione confusa tra guerre non dichiarate e intelligence fittamente inserite nelle ciclicità della circolazione delle classi politiche: è uno schiaffo a Putin e alla sua politica di rivendicazione dell’orgoglio russo ferito. Le conseguenze saranno drammatiche sia in economia sia in politica estera.
Il disastro geostrategico europeo si sta avvicinando di gran lena, in primo luogo per la situazione economica. L’ Italia apre la via della deflazione che diverrà strutturale in tutta Europa, Germania compresa: assistiamo a una caduta dei prezzi da più di un anno. È vero che molti analisti, in primo luogo gli uffici studi delle banche, si ostinano a fare il verso alla Bce chiamando questo processo inflazione negativa, anche se ogni cittadino che sa quanto costa un litro di latte e deve programmare il rientro dalle vacanze, comprende ciò che sta dietro questo calo dei prezzi: la contrazione della produzione, per il calo dei profitti, e quindi dell’occupazione. Ed ecco la conferma. Giungono anche i dati sulla disoccupazione che sono sconvolgenti e proprio nelle nazioni che si danno in ripresa come la Spagna e la Grecia e il Portogallo.
Noi in Italia siamo in una crisi terribile: in luglio è tornata a essere, la disoccupazione, dopo il lieve calo di maggio, al 12,6%. Un dato terrificante, se lo mettiamo in relazione con il dato di novembre 2013, quando si era toccato il massimo storico con il 12,7%. Qualche dato significativo al proposito: non solo quindi la disoccupazione si mantiene stabile, ma cala soprattutto la componente maschile dell’occupazione mentre quella giovanile oscilla attorno al 43% con una stabilità impressionante. Va inoltre sottolineato che la disoccupazione colpisce soprattutto i lavoratori con contratto a tempo indeterminato e che, se spigoliamo tra i settori merceologici, vediamo che gli unici aumenti sono nel part-time e nei lavori stagionali, con il part-time in larga misura involontario.
Si aggrava quindi la qualità dell’occupazione, ossia vengono espulsi lavoratori anziani e altamente qualificati, non trovano lavoro i giovani altamente scolarizzati, aumentano i divari territoriali con alcune aree del Nord, che addirittura registrano un calo della disoccupazione, mentre nel Sud essa dilaga.
Lasciatemi sottolineare inoltre una questione che mi sta molto a cuore: si tratta non solo di un disastro sociale ma anche morale, nel senso di caduta dell’orientamento al lavoro non altamente scolarizzato da parte delle giovani generazioni. In parole povere, nell’oceano della disoccupazione ci sono isole che potrebbero essere abitate da lavoratori volonterosi che non si trovano, come gli operai specializzati, fresatori, manutentori, operatori cad-cam, eccetera.
Ma veniamo al dunque. Che fare?
Nelle cuspidi della eurocrazia si suonano le trombe degli alfieri germano-teutonici dell’ordoliberalismus: suonano l’adunata generale delle riforme strutturali. La gente ha qualche speranza. Siamo infatti abituati a pensare che le riforme migliorino la situazione. Ma questi trombettieri suonano il silenzio e vestono lugubri armature da Cavalieri dell’Apocalisse. Per loro le riforme sono tutt’il contrario di un cambiamento positivo, ingannando così l’opinione pubblica. Sono infatti tutte commisurate sul folle parametro dell’abbassamento del debito pubblico e quindi della riduzione della spesa pubblica tout-court, dell’aumento delle tasse, delle privatizzazioni che dovrebbero togliere qualche ditale d’acqua dall’oceano del debito. E quindi sono tutto il contrario di misure favorevoli alla crescita.
Insomma, c’è il pericolo che si perda di vista il compito storico-generale del Parlamento europeo che è nato dalle ultime elezioni. Tutti avevano affermato che il compito prioritario era iniziare una nuova politica, occorreva cambiare passo e porre in testa la crescita e non la stabilità, ossia la ricetta devastante dell’austerità. Il fallimento della Bce del resto è preclaro: non solo ha declamato, fatto annunci a vuoto, ma non è riuscita neppure a onorare il suo ruolo statutario, ossia garantire la stabilità monetaria. Non l’ha garantita affatto: siamo in deflazione, ma di questo nessuno si accorge, nessuno chiede conto delle misure errate della Bce. L’importante è stato salvare i top manager bancari più che le banche capitalistiche, e annunciare misure che incentivassero le borse a crescere così come accade, mentre invece l’economia reale rovina. Ma ora giunge la prova del fuoco.
La mia tesi è che essa non risiede nella pinta che verrà dalla consapevolezza della crudeltà sociale dell’austerità. Gli eurocrati ordoliberisti sono privi di sistemi nervosi socialmente orientati. Non è la sofferenza che farà mutar di passo all’Europa tedesco-nordica, sarà la situazione geostrategica in Ucraina e nel Mediterraneo. L’Europa, infatti, sta andando in frantumi proprio su questo piano. E non solo l’Europa, ma il legame tra l’Europa e gli Usa, senza il quale l’Europa non esiste. Il recente summit della Nato, non a caso, si è concluso con una disastrosa divisione strategica. Da un lato gli Usa, la Polonia e i paesi baltici che vogliono dare all’alleanza un tono sempre più spiccatamente antirusso, sfregiando così irreversibilmente non solo l’Europa, ma il cuore del mondo che è nell’Eurasia, e dall’altro lato Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna e Germania che non vogliono approfondire il divario con la Russia, ma che però non sanno che pesci pigliare perché queste nazioni si muovono tutte in ordine sparso.
Su tutto ciò aleggia il dramma del crollo delle spese per la difesa, che coinvolge tutta l’Europa perché anche qui l’austerity ha provocato danni che potrebbero minacciare le vite degli stessi europei. Gli strateghi del califfato che tagliano la testa agli occidentali non sono al Polo Nord, ma a 50 km da Pantelleria, a 200 da Malta, ai confini della Turchia. Insomma, sono dietro l’angolo. Forse anche dietro l’angolo di casa nostra.
Abbandonare l’ordoliberalismus è un dovere, quindi, non solo verso la deflazione e la disoccupazione, ma anche nei confronti delle vite stesse degli occidentali, che sono sempre più in pericolo. Si dovrebbe conoscere la storia, si dovrebbero rileggere i discorsi di Winston Churchill, che sferzava un’aristocrazia inglese che voleva venire a patti con la Germania nazista. Da grande statista, giunse addirittura a fare abdicare un re, a travolgere il pacifismo dei laburisti, a suscitare l’energia creatrice di un’isola che era consapevole di dover continuare a governare il mondo, difendendo l’Occidente. Se avesse ascoltato il Cancelliere dello scacchiere, questi gli avrebbe detto che l’equilibrio dei conti non consentiva queste alzate d’ingegno. Lo cacciò sdegnosamente in un angolo.
Si ricerchino certo tutte le alleanze possibili, ma si ricordi che solo smontando dall’interno le regole dell’austerità è possibile non assistere al crollo dell’Europa. Politicamente, sottolineo, non economicamente… Occorre un grande dibattito che rifondi l’ Europa come idea e come prassi non più ordoliberista. Le possibilità ci sono tutte, perché la preoccupazione sale in tutti i raggruppamenti politici europei, solo la Commissione è immobile, anzi la nomina del polacco peggiora la situazione, ma questo deve indurci a far presto. Naturalmente anche lavorando per eliminare gli sprechi, le rendite parassitarie, il clientelismo, i mille corporativismi, si può rimettere in moto la macchina della crescita, in Italia e in Europa.
Ma per farlo occorre cambiare musica, il che vuol dire che occorre cambiare i trombettieri. Così non si salverà soltanto l’Europa, ma si porranno anche le basi per salvare l’Occidente.