“Noi non cancelliamo solo l’articolo 18, cancelliamo tutte le forme di co.co.co., di precariato. Oggi esiste un diritto che è in mano a un giudice, se l’imprenditore deve fare a meno di alcune persone deve poterlo fare. Ma non è questo il punto, tutti stanno parlando solo di un pezzetto piccolo del mercato. È una battaglia ideologica della sinistra, e il sindacato che viene a farci lezioni, dopo essersi dimenticato di tutti, è l’unico a non avere l’articolo 18”. È l’affondo del premier Matteo Renzi che domenica sera ha parlato a Che tempo che fa, la trasmissione condotta da Fabio Fazio. Una proposta, quella di abolire i contratti precari, che però non è immune da rischi, come spiega Gianluca Femminis, professore di Economia politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
La cancellazione dei contratti precari è vantaggiosa o è un autogol?
Per rispondere a questa domanda in modo esauriente occorrerebbe avere il quadro complessivo della riforma. Se il contratto unico è strutturato in modo che possa effettivamente funzionare, allora forse i contratti precari si possono abolire. Se invece il contratto a tutele crescenti non si dimostra adeguato, allora abolire i contratti precari è un autogol.
Nel momento in cui si trovassero costrette a scegliere tra il contratto a tutele crescenti e quello a tempo determinato, le aziende preferiranno ricorrere al lavoro in nero?
Anche in questo caso, molto dipenderà da come sarà strutturato il contratto unico. L’utilizzo del lavoro nero non è comunque così facile, soprattutto in alcune realtà, in quanto ci sono controlli e una catena di rapporti cliente-fornitore che precludono o scoraggiano l’utilizzo del lavoro nero. Così avviene in qualsiasi Paese avanzato, e non vedo quindi quello del lavoro nero come un pericolo se non per le realtà marginali. Il vero rischio è piuttosto che le aziende decidano di non assumere.
Come faranno le aziende qualora avessero bisogno di forme di lavoro flessibili come il lavoro a chiamata o collaborazioni occasionali?
Questo è un problema serio e reale. Ci sono picchi produttivi e una stagionalità, e a fianco del contratto unico saranno necessarie delle forme che prevedano questa fattispecie. In generale però la direzione verso cui ci si sta muovendo con il contratto a tutele crescenti è un miglioramento significativo, pur non senza problemi.
Quali sono le principali criticità legate al contratto a tutele crescenti?
Supponendo che il contratto unico funzioni e che il sistema delle tutele crescenti prenda piede, poi avremo dei lavoratori in una fascia d’età tra i 30 e i 35 anni che si troveranno con delle tutele significative nel loro attuale posto di lavoro e che saranno scoraggiati a cambiare. Spesso invece lo spostamento di giovani professionisti e lavoratori dotati di skills è un motore importante di cambiamento. Questo è un altro problema del contratto unico, e bisognerà vedere quale forma prenderà. Un problema di questo tipo lo si può risolvere almeno in parte ipotizzando che, per chi supera un certo numero di anni di anzianità, la tutela iniziale possa essere contrattata.
Un’altra delle proposte di Renzi è quella di portare il Tfr in busta paga. In questo modo però il lavoratore non lo riceverà più alla fine della sua carriera …
Naturalmente, infatti io ritengo che questa proposta non abbia molto senso. Anche se il suo motivo è evidente, cioè dare maggiore liquidità ai lavoratori. In questo modo però si creerebbero numerosi effetti controproducenti, tra cui quello che una persona poi non riceverà il Tfr alla fine della sua carriera. Ci sono inoltre tante imprese italiane che hanno problemi di liquidità, e versare ogni anno in busta paga il 50% o l’ammontare totale del Tfr acuirebbe questi problemi. Se una famiglia reagisse in modo del tutto razionale, con un piano di risparmio che tenga conto dei bisogni futuri, potrebbe reagire all’aumento della disponibilità liquida grazie al Tfr con un aumento del risparmio, ma non è detto che sarà così.
(Pietro Vernizzi)