Sapete qual è la novità? Che la Fed dovrà per forza far proseguire in qualche modo il proprio Qe e la Bce dovrà arrivare allo scontro con la Bundesbank per cominciare anch’essa ad acquistare, almeno per rimandare di qualche mese il disastro e la nuova crisi dell’euro, quella che porterà all’abbandono di alcune nazioni, Italia in testa. Partiamo dagli Usa e facciamolo con l’indicatore che da mesi vi dico essere fondamentale per capire il grado di esposizione alla leva della Borsa di New York, il margin debt, ovvero la somma delle quantità di denaro che le istituzioni finanziarie hanno prestato per acquistare titoli azionari al Nyse, avendo come garanzia i titoli stessi.
Questo indicatore ha ovviamente dei limiti, primo dei quali il fatti che ormai il grosso delle operazioni sul margine avviene nelle cosiddette “dark pools” non regolamentate, tra algoritmi e fondi speculativi, e il secondo il fatto che in questo contesto la gran parte del credito che si ottiene per operare arrivare dal cosiddetto sistema bancario ombra e dal mercato repo, non da operazioni di finanziamento “plain vanilla”. Detto questo, rimane un’ottima cartina di tornasole per capire il livello di indebitamento dell’investitore in caso di sell-off azionaria, ovvero un crollo dei corsi – e quindi del valore dei titoli – che potrebbe innescare le famigerate “margin calls”, ovvero gli obblighi di copertura delle posizioni assunte.
Bene, stando ai dati di agosto il margin debt è salito da 460 miliardi di dollari di luglio a 463 miliardi, non lontano dal picco di febbraio con i suoi 466 miliardi di dollari: ma a far paura, ora, è un altro dato, quello conseguente del cosiddetto “net worth”, ovvero il capitale libero non vincolato a margini, sceso a un nuovo minimo record di 183 miliardi di dollari, come ci mostra il grafico a fondo pagina. Perché questo è grave? Semplice, se il mercato dovesse subire una correzione netta e far scattare le margin calls, gli investitori non avrebbero cash sufficiente e dovrebbero vendere forzatamente titoli od ottenere finanziamento da altre fonti per coprire le loro posizioni, esacerbando quindi la possibilità di una sell-off sul mercato equity.
E il tonfo di giovedì scorso a New York ha fatto drizzare le antenne a parecchie persone alla Fed riguardo questo rischio reale, capace non a caso di far crollare tutte le Borse europee nelle ultime ore di contrattazione dopo l’apertura di Wall Street. Inoltre, con la fine del secondo trimestre, ora tutti gli occhi sono puntati sul dato relativo all’occupazione che verrà diffuso venerdì, un indicatore visto come fondamentale per capire le mosse della Fed, ovvero se l’occupazione sarà migliorata abbastanza da giustificare il “tapering” e la fine degli acquisti obbligazionari a ottobre.
Gli economisti si attendono un aumento di 215mila unità, dopo il deludente dato di agosto con solo 142 nuovi occupati, la prima lettura sotto quota 200mila da sette mesi a questa parte. I mercati sono quindi nervosi, tutti attendono il dato per capire se davvero Janet Yellen terrà fede alla promessa fatta e lancerà l’ultimo round di Qe in ottobre per poi togliere del tutto lo stimolo dal mercato a novembre, questione che è strettamente legata anche a un’altra variabile che non lascia tranquilli gli investitori, il timing del primo aumento dei tassi di interesse.
Non a caso, nella settimana appena conclusasi, l’indicatore della volatilità per l’indice S&P’s 500, il Vix, è salito quasi del 23%, mentre l’indice Dow Jones ha visto movimenti a tripla cifra ogni giorno di contrattazione per la prima volta in sedici mesi. E si sa che la volatilità è decisamente nemica dei corsi rialzisti, quindi venerdì potrebbe esserci una sorpresa molto negativa a livello macro ma positiva per i mercati, ormai mossi solo dalla logica del “bad news is a good news”: un dato deludente dell’occupazione e quindi un’apertura un po’ più da colomba della Fed verso il timing del ritiro del programma di quantitative easing.
E l’Europa? È in piena “giapponesizzazione”, ovvero intrappolata in un collasso deflazionario che soltanto Mario Draghi finge di non vedere, negando addirittura il rischio di nuova recessione a fronte degli ultimi dati macro: i profeti delle banche centrali e del denaro a pioggia, ma anche alcuni incauti analisti, per troppi mesi hanno interpretato ogni uptick dell’EuroSTOXX come una segnale di ripresa, dimenticando la regola aurea in base alla quale dall’inizio di questa crisi la Borsa non è mai stata un segnalatore credibile dello stato reale delle economie sottostanti.
Parliamoci chiaro: i recenti trend di alcune economie dell’eurozona – leggi Italia, Francia e Spagna – sono già oggi qualificabili come una stagnazione di tipo giapponese. Cosa porti con sé questa condizione è presto detto: discrepanza nella crescita salariale tra le varie economie, underperformance del mercato e caduta della competitività. Con un’ulteriore fonte di preoccupazione: l’economia nipponica pesava per circa il 9% dell’output globale quando iniziò il suo periodo di stagnazione, mentre quella dell’eurozona è al 15%, quindi se l’Ue continuerà su questo percorso potrebbe creare potenzialmente molti più danni a livello di economia globale di quanto fece il Giappone negli anni Novanta, sia per la sue dimensioni economiche maggiori, sia per le più forti interconnessioni finanziarie con il resto del mondo.
Basti poi dire che nel decennio che ci ha accompagnati all’anno in corso, la crescita media del Pil dell’area euro è stata dello 0,8%, contro lo 0,9% di quella giapponese dal 1992 al 2003. Di più, i livelli di stagnazione di alcune economie dell’eurozona hanno visto tassi di crescita non solo più bassi della media seguita alla Seconda guerra mondiale ma anche ad altre economie avanzate a esse paragonabili: prima conseguenza, l’apertura di un grosso cuneo nei livelli di Pil pro capite. Prendendo ad esempio il 2013, quel gap sul dato del Pil pro capite in Spagna era pari al 18%, in Italia addirittura del 27%, in Portogallo del 21%, in Belgio del 13% e in Francia del 18%: stando ai dati del Fondo monetario internazionale, poi, il Pil pro capite italiano come percentuale di quello tedesco è sceso dal 96% del 2002 al 76% del 2013, mentre rispetto a quello statunitense dal 69% al 57% e anche rispetto a quello spagnolo dal 109% al 102%! Come azione reflattiva a questa stagnazione, aggravata dalla crescita delle economie emergenti a livello globale, la percentuale di output italiano rispetto a quello globale nello stesso periodo è scesa dal 3,2% al 2,1%.
C’è poi un altro pattern che accomuna lo stato di alcune economie europee, Italia in testa, alle situazioni di stagnazione vissute nel passato, soprattutto quella nipponica: abbassamento dei returns azionari e aumento più del normale di quelli obbligazionari, visto che nelle economie prese in esame per la loro condizione di stagnazione, la media dei returns sui titoli in termini reali sull’anno è stata del -1,4%, molto al di sotto della media storica dell’8% mentre i returns totali sull’obbligazionario sempre per queste economie sono stati mediamente del 3,7% contro la media storica del 3%. Chiari indicatori di una cosa sola: la prezzatura di mercato riflette un calo della crescita.
E il fatto che negli ultimi mesi Goldman Sachs abbia venduto equities Usa a piene mani, anzi con un badile gigantesco e stia ora comprando equities europee può voler dire una cosa sola, alla luce dei dati che vi ho fornito: Mario Draghi, dopo il flop della prima asta di Tltro e in vista della seconda, dovrà cominciare a modellare un piano di acquisti vero, un Qe insomma, altrimenti le dinamiche giapponesi non potranno che portare a una frammentazione drammatica e ulteriore delle economie dell’eurozona con il rischio di esplosione della stessa. Non a caso, appena il numero uno della Bce ha parlato di ulteriori misure non convenzionali in un’intervista a una radio francese, l’ineffabile ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, ha immediatamente criticato addirittura l’annunciato piano di acquisti di Abs, ovvero le cartolarizzazione dei crediti bancari.
A Berlino sanno come stanno le cose, anche perché grazie al loro surplus di partite correnti esorbitante sono stati il driver della situazione attuale. La riunione del Consiglio direttivo della Bce di giovedì e la conseguente conferenza stampa di Mario Draghi potranno forse fornirci una prima smentita o conferma di questa ipotesi, così come il dato sull’occupazione Usa previsto per il giorno dopo.