Con il taglio dei tassi al livello minimo (0,05%), l’acquisto di titoli cartolarizzati, un nuovo finanziamento agevolato alle banche purché prestino denaro alle piccole imprese, che cos’altro può fare la Banca centrale europea? Può comperare anche i titoli di stato, completando così il passaggio al Quantitative easing modello Federal reserve. Ma sarà difficile. La Bundesbank ieri ha votato contro tutte le misure. Ed è inutile negare che siamo arrivati vicino alla fine degli strumenti disponibili. La politica monetaria sta svuotando la sua cassetta degli attrezzi. Eppure l’economia ristagna e i prezzi scendono, la zona euro viene trascinata verso la stag-deflazione. Gli stimoli della Bce potranno rallentare la marcia, ma per cambiare verso occorrono altri strumenti. E’ quel che ha detto Mario Draghi a Jackson Hole quando ha illustrato il suo paradigma delle tre gambe: moneta, fisco e riforme. Con le riforme al primo posto: “sono il punto chiave”, ha ribadito ieri in conferenza stampa.



Vediamo, dunque i tre pilastri della dottrina Draghi, senza sottovalutare che portare i tassi al pavimento può incidere sul tasso di cambio dell’euro, abbassandolo a livelli meno irrealistici e favorendo le esportazioni verso aree valutarie diverse. Un sollievo, sia pure non determinante, per stimolare la crescita.



Anche a costo di invertire gli assiomi del Draghi-pensiero, cominciamo dalla moneta. Secondo molti critici autorevoli, la Bce si è mossa troppo tardi e ha fatto finora troppo poco per invertire la marcia dei prezzi verso la deflazione, un territorio ad alto rischio perché peggiora l’indebitamento e la base fiscale, bloccando l’attività economica. In realtà i banchieri centrali sono convinti che siamo ancora in una fase di “inflazione insolitamente bassa” e che basta cambiare le aspettative. Ma proprio qui viene il difficile. Infatti, in tutto questo tempo abbiamo visto che non serve a molto gettare la moneta dall’elicottero, secondo il paradosso di Milton Friedman, se la gente la raccoglie, ma non la usa. Ciò avviene proprio perché la paura del presente e le incognite del futuro spingono ad aumentare l’uso precauzionale della moneta, una delle sue tre funzioni fondamentali (le altre sono mezzo di scambio e riserva di valore).



Per cambiare questa situazione, Draghi chiama in causa i governi, con una mossa non usuale per un banchiere centrale. E chiede loro due cose: di ridurre le imposte e aumentare la produttività. Il risanamento dei bilanci pubblici e la riduzione dei debiti sono la premessa per abbassare le tasse che in Europa soffocano l’attività economica. Qui alcuni governi dovranno fare più degli altri (per esempio quello italiano). Ma una responsabilità forte ricade anche sulle spalle di chi ha i conti in ordine. A costoro spetta l’onere di rilanciare la domanda con una politica fiscale espansiva. Quando Draghi parla di patto fiscale e ulteriore riduzione della sovranità, ha in mente sia l’Italia sia la Germania, sia pur dal lato opposto. Se si partecipa a una unione monetaria nessuno può andare avanti come gli pare, cercando di fregare il proprio vicino.

La stessa reciprocità riguarda le riforme. E’ vero che Italia e Francia debbono cambiare il mercato del lavoro (e sarà durissima in entrambi i paesi), ma è anche vero che la Germania deve liberalizzare i servizi e risanare un sistema bancario che ha tenuto fuori dal processo di unione bancaria. Sono le casse di risparmio e gli istituti di credito locale, tuttavia è molto probabile che i prossimi stress test riveleranno amare realtà anche nelle banche maggiori che dovranno finire nei prossimi anni sotto la vigilanza della Bce.

La questione bancaria è davvero centrale: da qui passa l’80% dell’intermediazione del risparmio in Europa e la stretta del credito frena la ripresa anche là dove potrebbe essere sostenuta. Una frenata provocata da bilanci appesantiti e con un capitale insufficiente, da crediti inesigibili per via della crisi o da titoli marci, residuo della vecchia ubriacatura finanziaria, ma anche nuovi di zecca, perché i derivati, come dimostra la Banca dei regolamenti internazionali, in questi anni sono addirittura aumentati.

La Bce sta varando un programma di sostegno alle banche che potrebbe contribuire a rafforzare la loro solidità patrimoniale e a ripulirle da titoli ad alto rischio, come ha spiegato Draghi. Gli esiti sono tutti da testare. Ma siamo ancora dentro l’orizzonte dei salvataggi bancari. Una riforma che renda le banche più solide e meno supermarket finanziari, resta da fare e forse non sarà mai realizzata. Quando si parla di riforme, dunque, è bene non discutere solo di pensioni o flessibilità nell’uso della forza lavoro, ma anche di cambiamenti altrettanto strategici che riguardano un sistema bancario in gran parte responsabile del collasso finanziario e della Grande Recessione. E sarebbe importante che lo ricordasse lo stesso Draghi, il quale ha guidato per anni il Financial stability forum e ha fatto delle riforme di struttura un pilastro tanto importante.

Le decisioni annunciate ieri e quelle che verranno prese il mese prossimo aiutano l’Italia? Sì se bloccano la deflazione (qui è già arrivata) e svalutano l’euro. Per le banche, bisogna capire quali titoli verranno comprati e in che misura, tutte notizie rinviate a ottobre. Ma la politica fiscale non avrà nessun sollievo. Anzi, Draghi ha detto chiaramente che la flessibilità è quella già prevista dai trattati, e il patto fiscale va rispettato perché è in ballo la fiducia. Matteo Renzi spera ancora di ottenere un rinvio per il fiscal compact allentando il corsetto del 3% nel rapporto deficit/pil che riduce ogni movimento e impedisce di presentare una legge finanziaria priva di stangate.

Dalle parole di Draghi non c’è da attendersi nessuno sconto. Chissà cosa si saranno detti nell’incontro agostano vicino a Città della Pieve? “La conversazione è strettamente riservata”, ha risposto il presidente della Bce a un giornalista che glielo ha chiesto.

Tirando a indovinare si può osservare che la riforma del mercato del lavoro, articolo 18 compreso, è tornata in primo piano (anche se nei fatti procede a rilento). O che Renzi è passato dalla spending review ai tagli lineari per ricavare dalla spesa risparmi per una ventina di miliardi. Ma per capirlo davvero dovremo ancora aspettare che il ministero dell’Economia butti giù la finanziaria per il 2015. Lacrime e sangue? Certo non saranno rose e fiori.