Si moltiplicano le critiche nei confronti della politica perseguita da Shinzo Abe dopo la sua recente vittoria elettorale in Giappone. Una vittoria scontata che segna il rafforzamento della forte connessione socioeconomica della classe politica liberal-democratica con la formazione economico-sociale che ha governato il Paese del Sol Levante dalla ricostruzione promossa dagli Usa dopo gli anni Cinquanta, e dagli Usa stessi ridotta alla stagnazione dopo gli accordi del Plaza Hotel del 1985, quando i nordamericani imposero il rialzo dello yen e di fatto consegnarono il Giappone alla lunga deflazione contro cui oggi Abe combatte. 



Ho già molte volte ricordato che questa politica è di fatto imposta di nuovo dagli Usa nel loro crescente disimpegno militare e psicologico da tutte le aree mondiali in cui un tempo esercitavano politiche di contenimento dal comunismo e ora dalla Cina di cui hanno scoperto la natura aggressiva solo recentemente, dopo averne promosso l’integrazione asimmetrica nella globalizzazione finanziaria e non. Ora il riarmo giapponese diventa di vitale importanza, unitamente alla stipulazione della Trans-Pacific Partnership, di cui il Giappone con l’Australia, il Vietnam e il Messico costituisce uno dei pilastri fondamentali per l’architrave da costruire. 

Senonché la politica di Abe è innanzitutto monetarista di espansione della moneta circolante e della quota monetaria in possesso della Banca centrale. Bottarelli ha ragione nel punzecchiare su queste pagine l’Abenomics, anche se parte da un punto di vista per me non sostenibile. Mi scuso per non essere seguace di von Mises e von Hayek. Il problema non è nel Quantative easing in sé, ma nell’illusione tutta monetarista post-Mises e post-Hayek che la moneta muova l’economia. È giusto invece ritenere che una politica economica fondata solo sulla Banca centrale dominus indiscusso non solo non produce risultati, ma altresì può provocare nuove bolle speculative da lubriche banche universali speculatrici. 

Il guaio di Abe risiede nella contraddittorietà della sua politica non solo economica. In primo luogo, è pazzesco aumentare le tasse mentre si azzerano i tassi, inducendo consumatori e imprese nel pallone, ossia nella permanenza del basso consumo e nel non investimento. Bisogna poi conoscere un po’ di storia giapponese per capire che cosa sta accadendo nel Paese del Sol Levante. Guardiamo in primo luogo a colui che esercita il compito di ministro dell’Economia, che è l’uomo più potente del Giappone. Segue la Trans-Pacific Partnership con continui contatti con gli Usa ed è figlio d’arte. La sua famiglia discende da sacri lombi: quelli di uno dei 26  war lord dell’era Shingen Takeda, war lord che esercitarono il potere nel 1500 nel Giappone degli Shogun e che fondarono appunto lo Shogunato che è l’essenza del medioevo giapponese profondamente diverso da quello europeo. E che continuano a esercitarlo.

Akira Amari ha ereditato il seggio senatoriale del padre, di cui è stato tra gli anni Sessanta e Settanta (per otto anni) segretario. Uomo di grande coraggio e tempra (ha sconfitto un cancro ben temibile continuando la sua opera di servitore della classe dominante giapponese), egli interpreta pienamente l’intreccio tra modernità e tradizione che è tipico del Paese del Sol Levante. Non ha intaccato il protezionismo agrario che fonda la base di massa rurale liberal-democratica e nel contempo non ha riformato il cosiddetto mercato del lavoro che in pratica assicurava e assicura agli assunti circa venti anni or sono l’impiego a vita. Nel contempo, però, come ha spiegato mirabilmente Robert Katz recentemente su “Foreign Affairs”, ha introdotto la legislazione che diffonde il lavoro precario e temporaneo con il risultato che il 35% degli occupati oggi in Giappone ha contratti a termine e con bassissimi salari, sconvolgendo quella macchina da guerra economica che era il Giappone sino alla fine degli anni Ottanta: una macchina fondata su altissima specializzazione e bassissima conflittualità sociale (dopo la distruzione manu militari dei sindacati negli anni Cinquanta, seguendo la tradizione del militarismo aggressivo del Giappone pre Seconda guerra mondiale).

A ciò si aggiunge – aggravata da questa politica del lavoro – una situazione demografica sconvolgente per il crollo del tasso di natalità che si aggiunge a una lunghezza della durata della vita tra le più alte al mondo, con le note conseguenze sui bilanci statale e dei fondi pensione. A ciò aggiungiamo ancora il modello Keiretsu che domina il potere economico giapponese con l’intricazione tra banche e grandi conglomerati assicurativi e produttivi con il dominio delle grandi famiglie prima ricordate: un sistema rigido e di fatto chiuso a ogni forma di competizione regolata o no che sia.

In questo l’Abenomics è un esempio interessante del nuovo pseudo ruolo anticiclico “che prende tempo” assunto dalle banche centrali – ruolo che ha i suoi effetti in ogni caso solo dopo qualche anno -, ma che in definitiva è assai trasformistico e irrisolto teoricamente. E come il trasformismo e e l’errata teoria è difficile trasformare una società economica sia in Occidente che in Oriente. E superare la deflazione secolare.