In questi giorni, molti occhi e molti cannocchiali sono puntati su Francoforte nella speranza che il 22 gennaio (a ridosso delle elezioni del 25 gennaio in Grecia), la Banca centrale europea venga autorizzata dal proprio organo di governo più alto a intervenire con misure monetarie “non convenzionali” tali da mettere in fuga lo spettro della deflazione. Ilsussidiario.net ha riassunto e illustrato più volte la galassia di sigle che contraddistinguono tali misure “non convenzionali”.



Non facciamoci illusioni: anche se il management della Bce verrà autorizzato a varare un programma d’acquisto di titoli di Stato dei “soci”, per così dire, dell’Eurozona, non solo tale programma sarà limitato ai titoli “ad alto rating” (quindi, Germania, Francia e pochi altri), ma avrà effetti limitati. Lo prova la valutazione degli Ltro fatta dalla Banque de France (Banque de France Working Paper n.528 del 3 gennaio), la prima che è stata effettuata secondo criteri scientifico-professionali e che il Governo di Parigi ha avuto il coraggio di pubblicare. E che gran parte della stampa italiana ha ignorato.



Infatti, alla base della crisi (e della deflazione) non c’è un problema di liquidità generale: dal 2007 a oggi, la liquidità in senso lato (M3) nell’eurozona ha avuto tassi d’espansione tra il 2,2% e il 2,5% l’anno, con un accelerazione negli ultimi trimestri. La liquidità è finita “in trappola”, per utilizzare il gergo degli economisti, non solo perché le banche hanno utilizzato (e stanno ancora utilizzando) le risorse fresche per mettere ordine nei loro portafogli. Ma per un problema più serio, e poco studiato. Che io sappia la formulazione migliore è stata data da Richard C. Koo – un economista che guida da anni il servizio studi del Nomura Research Institute e insegna in una delle maggiori università di Tokyo.



In breve, negli ultimi anni la deflazione è stata preceduta da una balance sheets recession, ovvero una recessione dei conti profitti e perdite degli Stati (l’Himalaya del debito) e delle imprese, nonché, in alcune regioni e paesi (Usa in prima fila), delle famiglie. Ciò si verifica quando alcuni asset (ad esempio, l’edilizia) perdono drasticamente di valore, causando crisi debitorie più o meno gravi, e gli obiettivi d’investimento di individui, famiglie e imprese mutano: dalla “massimizzazione del profitto” si passa alla “minimizzazione dell’indebitamento” (per timore di nuove crisi debitorie).

Nel suo libro più noto più noto (The Holy Grail of Macroeconomics: Lessons from Japan’s Great Recession, John Wiley and Sons, Singapore 2008) Koo sviscera la balance sheets recession e le difficoltà che essa comporta. La balance sheets recession più grave e più nota – Koo sostiene in un saggio recente – è la Grande Depressione del 1929: furono necessari trenta anni e una guerra mondiale perché la struttura dei tassi d’interesse degli Stati Uniti tornasse a essere “normale”. Il Giappone è in una balance sheets recession da oltre quindici anni: politiche monetarie e di bilancio espansioniste non hanno avuto effetti di rilievo a ragione della fortissima avversione al rischio (e all’indebitamento) di famiglie e imprese.Pochi sanno come uscire da una balance sheets recession.

Occorre, però, andare oltre le analisi di Koo. La più grave balance sheets recession è quella delle finanze pubbliche – la crisi fiscale degli Stati. Da qualche giorno, il britannico, e liberale, Institute of Economic Affairs ha pubblicato una monografia (Research Monograph 68, 2014) di Jagadeesh Gokhale, un economista indiano distinto e distante dai problemi di bottega dell’eurozona, intitolato The Government Debt Iceberg il cui incipit è “L’Europa e gli Stati Uniti saranno presto alle prese con problemi mai immaginati sinora”.

Il debito federale americano è raddoppiato tra il 2000 e il 2012: resterà sul 100% del Pil sino al 2020 per poi aumentare man mano che i baby boomers vanno in pensione. In Europa è mediamente cresciuto dal 60% all’inizio del secolo all’85%, ma si avvia a una costante crescita, di cui Grecia, Italia, Spagna, Belgio e Portogallo sono unicamente le prime avvisaglie. La situazione europea, infatti, è, secondo Gokhale, ben peggiore di quella americana a ragione principalmente della demografia; la fiscal imbalance strutturale nell’Ue equivale, secondo i calcoli di Gokhale, a un’imposta indiretta sui consumi del 23,2%, che si aggiunge a quelle già in vigore (come l’Iva) – un freno permanente alla crescita e una spinta, di converso, alla deflazione.

Dato che è impossibile incidere in tempi brevi – 140 anni di politiche “nataliste” in Francia hanno avuto effetti molto limitati – i policy makers non hanno altra strada che quella di ridurre il debito sovrano se vogliono tentare di uscire dalla deflazione. È indubbiamente una strada più lineare, ma più dura, dello gingillarsi con la galassia degli acronimi delle misure monetarie “non convenzionali”. Alcuni economisti lo sostengono da anni; esistono programmi specifici che sono stati messi a confronto in sedi istituzionali. Adesso, la stessa Lucrezia Reichlin, a lungo alla guida del servizio studi Bce, ha ricordato, dalla colonne de IlCorriere della Sera, che il mondo sarebbe stato differente se nel dopoguerra gli alleati non avessero ridotto del 50% del debito tedesco e avessero invece insistito su “riparazioni” come nel 1919.

Si possono fare esempi più recenti: un quarto di secolo fa, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò all’unanimità un breve rapporto predisposto, per conto del Segretario Generale dell’Onu, dall’ex Presidente del Consiglio italiano Craxi; proponeva una serie di “insolvenze concordate” per uscire dalla trappola del debito dei paesi in via di sviluppo.

Sarebbe stato utile che, senza tanti cincischiamenti, Palazzo Chigi, la Farnesina e Via venti Settembre avessero puntato sulle premesse per una conferenza europea per risolvere il debito sovrano europeo- il vero nodo alla crescita. Invece d’andare a caccia di farfalle intonando coretti a cappella su una mai spiegata flessibilità.