“In questi sei mesi ci pare di aver visto un cambiamento profondo nella direzione. Ma ancora non nei fatti”. Lo ha detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di fronte al Parlamento di Strasburgo, nel discorso conclusivo del semestre italiano di presidenza europea. “Non si guida un semestre pensando all’interesse del tuo Paese, ma pensando al futuro dell’Europa – ha aggiunto Renzi -. In questi sei mesi abbiamo fatto molto, ciò che serve all’Italia lo fanno gli italiani”. Nel frattempo la Commissione europea ha deciso di dare il via libera a “temporanee deviazioni” sui conti pubblici, nel caso di piani di investimenti lanciati da paesi in recessione o difficoltà economica, qualcosa che assomiglia alla flessiblità tanto richiesta dal Premier italiano. Ne abbiamo parlato con Guido Gentili, editorialista ed ex direttore de Il Sole 24 Ore.



C’è stato in Europa  il cambiamento di direzione di cui ha parlato Renzi?

Gli ultimi sei mesi si sono caratterizzati per una ripresa del dibattito sui temi della flessibilità e della crescita. Renzi e Padoan hanno cercato di accelerare questo dibattito. Quando ha presentato la sua piattaforma, con cui è uscito vincente nel suo confronto con Bersani, la posizione di Renzi sui temi europei era molto aggressiva. Ha parlato di superare il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil, ha affermato che la Bce doveva muoversi come la Fed e ha ipotizzato una revisione dei trattati Ue.



Poi perché non ha portato queste istanze fino in fondo?

Una volta entrato a Palazzo Chigi ha cercato un dialogo più stretto con la Germania, optando per una via di mezzo tra la critica aggressiva e la tradizionale posizione di subalternità dell’Italia all’asse franco-tedesco. Questa terza via ha portato a qualche risultato, per esempio il governo italiano ha messo in discussione i metodi di calcolo che riguardano l’output gap. Effettivamente è stato annunciato un cambio di strategia, ma che ancora non si è pienamente concretizzato.

Sempre Renzi ha detto che “siamo pronti a essere generosi con il fondo per gli investimenti strategici della Commissione europea (Efsi). Ma a beneficiarne saranno l’Italia o altri Paesi?



Su questo c’è una posizione tedesca molto ferma nel precisare che i soldi che arrivano dal fondo per gli investimenti non devono essere immediatamente ripartiti per quote nazionali, ma restano in un’unica “cassa” per essere poi distribuiti da una commissione di esperti. Essere generosi va bene, ma bisogna vedere fino a che punto. La questione è se riusciamo a fare passare dei progetti che interessano lo sviluppo del nostro Paese.

Per Katainen, vicepresidente della Commissione, “se gli Stati membri decidono di contribuire all’Efsi o a piattaforme di investimenti legate all’Efsi, la Commissione prenderà una posizione favorevole verso questi contributi nel valutare le finanze pubbliche di questi Stati”. Alla fine l’Italia avrà un vantaggio da questa decisione?

Da questa dichiarazione di Katainen sembrerebbe profilarsi un vantaggio per l’Italia, anche se poi dovremo verificarlo dai dettagli operativi. Per ora sembra realizzarsi la possibilità che gli Stati che contribuiscono al Fondo per gli investimenti vedano derubricate queste cifre dal rapporto deficit/Pil. Se è così, è un punto importante che era stato sollevato non solo dall’Italia ma anche da tanti altri Paesi tra cui la Francia. La dichiarazione di Katainen va in questa direzione, ma non è ancora così esplicita dal punto di vista operativo.

 

Bruxelles ha studiato l’ipotesi di ridurre le richieste di aggiustamento di bilancio quanto più sarà elevata la differenza tra crescita potenziale e reale. Quali possibilità ci sono che questa norma sia approvata?

Da un lato ci sono le riforme proposte dai singoli Paesi, dall’altra c’è la valutazione della Commissione Ue, e in questo scambio lo spazio è molto grande. Per riempirlo sarebbe possibile introdurre una nuova disciplina che riguarda i metodi di calcolo che abbiamo ricordato prima. Su questo terreno potrebbero esserci effettivamente delle condizioni per cui la valutazione della Commissione sia meno “ragionieristica” e più politica. Lo stesso Juncker ha ricordato: “Non siamo dei burocrati ma dei politici”. I metodi di calcolo sono importanti, ma una volta fissati questi nuovi parametri matematici, la valutazione è rigorosamente politica. Un Paese che si rende credibile dal punto di vista delle riforme presentate ha maggiori possibilità di un altro che è in ritardo o in stallo.

 

(Pietro Vernizzi)