L’Italia non riesce a essere un Paese normale. Siamo immersi nella più grande crisi del sistema economico mondiale dopo il 1907. Si susseguono le preoccupazioni per la disoccupazione e la distruzione della cosiddetta domanda aggregata, ossia chiusura di imprese e perdita di posti di lavoro. Tutti conveniamo da qualsiasi parte politica o riferimento ideale che la disoccupazione giovanile è un terribile problema morale, prima che sociale, e che la disgregazione della società inizia proprio dall’impoverimento dei territori, in cui le comunità umane vivono e dovrebbero lavorare e riprodursi.
I tassi di natalità scendono precipitosamente nei pasi più sviluppati, o meglio più anticamente industrializzati. Ebbene, dinanzi a tutto ciò le più alte cuspidi del capitalismo mondiale mettono in atto misure dirette a far rinascere i tessuti territoriali e quindi imprenditoriali. È di pochi giorni or sono la notizia che Obama, non Breznev, ha nominato un nuovo direttore della Fed il quale ha dedicato tutto il suo impegno per l’ economia territoriale e lo sviluppo del mondo mutualistico nordamericano, in primis le banche cooperative di credito E dall’altro lato, sempre in Usa, Jamie Dimon, Ceo di JP Morgan Chase, non si stanca di attaccare il governo Usa, minacciando addirittura di trasferire la sede legale della più importante banca d’affari del mondo in Cina, se non la si finirà con quella che chiama la persecuzione regolamentaria degli organi tanto dello Stato quanto della giustizia che riducono sempre più, a suo dire, il peso della “finanza creativa” a vantaggio della rinascita delle banche mutualistiche e legate al territorio.
In Asia, in Africa, in Europa – e la Germania è in testa in questo processo unitamene alla Francia – i governi difendono a spada tratta le banche locali, siano esse cooperative o commerciali, perché continuano a rappresentare un baluardo contro la recessione e la deflazione e lo fanno rinnovando quel modello di banca di relazione fiduciaria fondata su un’antropologia positiva della persona e della famiglia che fa sì che tutti gli utili bancari che non servono alla ricostituzione continua della macchina organizzativo-patrimoniale e finanziaria dell’organizzazione, ossia tutti i profitti che rimangono, tutti, vengano continuamente riversati nei territori in cui le banche cooperative e popolari sono nate e continuano a esercitare il loro lavoro provvidenziale per le piccole e medie imprese e le famiglie.
Ebbene, nel prosieguo del tempo, e ciò è avvenuto in tutto il mondo, le banche popolari, si sono via via adeguate alle necessità della crescita territoriale e alla mondializzazione, affrontando la quotazione in borsa, così da raccogliere maggiori masse di capitale e nel contempo meglio adempiere ai doveri che statutariamente hanno verso i loro soci e i territori in cui i soci vivono e operano.
Il voto capitario (ossia una testa un voto, quale che sia il numero delle azioni possedute) e il tetto al possesso azionario, per rendere effettivo e non illusorio il principio sopraddetto, sono i baluardi invalicabili – unitamente al limite delle deleghe al voto che possono essere raccolte da singoli soci nel corso delle votazioni assembleari – grazie a cui, anche nel caso della quotazione borsistica, quelle caratteristiche peculiari di difesa della socialità dell’economia non si perdano e anzi ritrovino nuova forza e nuovi motivi per adeguarsi ai processi impetuosi di trasformazione. Durante la crisi, grazie a questo rinnovarsi della tradizione e quindi dei caratteri costitutivi dei principi mutualistici e cooperativi, le banche popolari hanno continuato a essere un argine alla disgregazione sociale e alla definitiva scomparsa di segmenti importanti del nostro patrimonio economico.
Per questo è necessario lanciare un allarme alto e forte, senza timori, sulle decisioni che pare che il governo voglia assumere proprio in merito alle banche popolari, con un provvedimento che dovrebbe essere inserito nel cosiddetto pacchetto legislativo “Industrial Compact”. In esso, con uno spregiudicato colpo di mano, si abolirebbe l’articolo 30 del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, cancellando con un colpo di spugna il voto capitario e il tetto ai possessi azionari, nonché ai tetti delle deleghe che sono possibili nel corso delle assemblee.
Si distruggerebbero in tal modo, di fatto, le banche popolari, soddisfacendo l’odio ideologico nei loro confronti che ha guidato in questi anni non tanto e non solo i grandi oligopoli finanziari a caccia di prede e di liquidità, ma purtroppo anche la Banca d’ Italia, che su questo tema ha scordato da anni l’insegnamento dei Beneduce, dei Menichella, dei Carli, dei Baffi, distruggendo un grande patrimonio tecnico e morale di visione polifonica delle forme di allocazione dei diritti di proprietà in campo bancario e creditizio, con una perdita di prestigio e di autorevolezza indipendente veramente immensa!
Quel provvedimento, se fosse attuato, favorirebbe spregiudicate manovre finanziarie che di fatto distruggerebbero le banche popolari, laddove esse sono maggiormente utili per la collettività, ossia costringendo i loro flussi creditizi a rivolgersi non verso i territori ma verso la valorizzazione finanziaria fine a se stessa, omologando le banche di territorio alle banche capitalistiche tout court con le conseguenze che abbiamo dinanzi ai nostri occhi: assenza di credito, speculazione camuffata da acrobazie da “finanza evoluta”, ecc.
Ma c’è di più e in questo consiste la drammaticità ancor più forte dell’allarme! Come si può procedere a varare una misura siffatta in un periodo di vacanza istituzionale? Il Presidente Napolitano, il quale ha sempre difeso a viso aperto le banche popolari, si è appena dimesso e lo Stato affronta un lungo periodo d’interregno in cui nulla di costituzionalmente rilevante dovrebbe essere posto in essere, proprio per la vacatio che si è aperta. Orbene, agire nel senso che ho prima richiamato è un vulnus all’ordinamento stesso dello Stato e non può che accrescere i timori anche sulla stessa configurazione che potrebbe assumere la battaglia per il Quirinale, con pesanti interferenze da parte di quei poteri finanziari che da anni e anni lavorano per eliminare il ruolo benefico svolto dal credito cooperativo con le banche popolari.
Questo fatto non accade in nessun altra nazione al mondo e getta pesanti e inquietanti ombre sulla partita in gioco in Italia in questi giorni, in queste ore! Tuti coloro che hanno a cura la società italiana, i fondamenti della solidarietà, un’economia giusta perché sana, e tutti coloro che hanno visto nella Caritas in Veritate un elemento fondamentale per umanizzare l’economia, tutti costoro, quali che siano le fedi religiose o le opinioni politiche, debbono insorgere contro questo provvedimento che se fosse approvato addirittura con un decreto legge – come si annuncia – sarebbe veramente un pericoloso inizio di una deriva autoritaria in economia e che non porterebbe nulla di buono all’Italia.
Si ricorra quanto meno a un provvedimento legislativo che consenta una discussione parlamentare e l’intervento delle rappresentanze sociali dei datori e dei prestatori d’opera e in generale della società civile, e si fughino in tal modo le ombre pesanti e temibili che aleggiano attorno a questo inaudito comportamento politico e finanziario, oscuro e privo di ogni legittimazione.