Nel suo discorso di commiato, Giorgio Napolitano ha avuto alcuni spunti critici (e autocritici) sui quali val la pena riflettere. A parte il riconoscimento, in gran parte dovuto, sull’anomalia costituzionale che lo ha indotto a prolungare il proprio mandato, è di assoluto rilievo il passaggio sulla politica economica: “Tutti gli interventi pubblici messi in atto in Italia negli ultimi anni stentano a produrre effetti decisivi”, ha ammesso Napolitano. Già. Perché? Hanno provocato una recessione lunga e profonda, peggiore rispetto a quella di altri paesi che pure hanno seguito la stessa ricetta, basata fondamentalmente sulla spremitura del fattore lavoro. Dunque, la ricetta era sbagliata? La cura intempestiva o inadeguata?



Prima di cercare una risposta, vediamo altri due messaggi di fine d’anno. Il primo è venuto dall’Istat: la recessione sta finendo, ma lascia dietro di sé un cumulo di macerie, soprattutto nel mondo del lavoro. L’altro arriva da Pier Carlo Padoan: il ministro dell’Economia ha annunciato “un pacchetto d’investimenti per aiutare la crescita”.



L’Istituto di statistica ci dice che l’aggiustamento, come lo chiamano gli economisti, realizzato soprattutto svalutando il lavoro (dal lato dei prezzi e della quantità) è troppo costoso e colpisce al cuore il modello italiano, cioè un’economia che ha come unica risorsa proprio il lavoro, vista la mancanza di materie prime e la scarsità di capitale.

Del resto, la pars destruens della politica economica non è stata accompagnata da una pars construens, com’è avvenuto invece negli Stati Uniti. Padoan ricorda che gli Usa “hanno scelto di affrontare la crisi prima rimettendo in sesto il sistema finanziario e lasciare in un secondo momento l’aggiustamento fiscale, il contrario di quanto abbiamo fatto in Europa”. Anche gli americani hanno imposto sacrifici agli occupati (lo dimostra la ristrutturazione dell’auto), però hanno creato posti di lavoro. Oggi il tasso di disoccupazione negli Usa è al 6%, un livello ritenuto ancora troppo elevato, ma che è pur sempre la metà di quello medio europeo.



Padoan, dunque, conosce bene l’aggrovigliato nodo da sciogliere (tanto più che con il Jobs Act cade l’alibi dell’articolo 18) e lavora ad alcuni interventi sulle condizioni che oggi bloccano la ripresa. Può darsi che siano misure troppo piccole e frastagliate per avere un impatto forte, come sostiene Massimo Mucchetti, voce critica dentro il Pd che non si identifica con la sinistra interna. Ma il punto chiave è che si tratta ancora di una politica dell’offerta, mentre è evidente (anche alla luce dell’esperienza americana) che occorre operare anche dal lato della domanda.

A bloccare la domanda aggregata (consumi più investimenti), allo stato attuale è il peso eccessivo delle tasse e in particolare la bomba a orologeria dei balzelli locali. Dunque, il bersaglio grosso da colpire resta il carico fiscale. Finché il governo non sarà in grado di mostrare che, sia pur con il realismo dei piccoli passi, anno dopo anno scende la pressione delle imposte sul reddito nazionale e sui redditi personali, non cambieranno le aspettative delle famiglie e delle imprese.

Ciò ripropone il dilemma del tre per cento: è impossibile ridurre le entrate dello Stato senza tagliare le uscite, ma così facendo l’effetto combinato può risultare anch’esso recessivo. Dunque, bisogna forzare i vincoli europei? Il governo finora li ha accettati, ma a breve si troverà di nuovo sotto esame. Potrebbe avviare con il prossimo Documento di economia e finanza un piano triennale di riforma del welfare pubblico coinvolgendo in modo strategico i privati e il terzo settore, può rispolverare la spending review soffocata nella culla, vendere in modo più coraggioso patrimonio immobiliare e imprese di Stato.

Gli investimenti che contano non sono quelli pubblici i cui effetti sono visibili solo nel medio periodo. E il sostegno ai consumi non può essere affidato ad altre spese assistenziali per i limiti oggettivi del bilancio pubblico e per il fatto che oggi la distribuzione del reddito non si trasforma immediatamente in consumi, come dimostra l’esempio degli 80 euro.

Il menu è più che mai ricco. E il governo italiano deve metterlo in tavola. Oggi nessuno ha in mano l’asso pigliatutto, anche perché le elezioni greche e quelle britanniche riaprono questioni fondamentali sull’Unione e il modo di stare insieme. L’unica cosa certa è che a Renzi e a Padoan non basterà il piccolo cabotaggio.