Ci sono frasi fatte del passato che ridicolizzano chiunque oggi le usi eppure a volte irrompono prepotenti nella memoria, perché suonano oggettivamente forti e appropriate: “Lo Stato imperialista delle multinazionali” è una di queste, è una specie di “copyright” lasciatoci in eredità dal Sessantotto, ma tornava perentorio ieri alla memoria di chi avesse esaminato la surreale vicenda della riforma-blitz che Matteo Renzi ha deciso, chissà poi perché, di varare in fretta e furia ai danni delle banche popolari italiane.



Un comportamento, il suo, da vero e proprio “Stato imperialista delle multinazionali” della finanza americana: o meglio, da Stato suddito delle multinazionali imperialiste. Già, perché come ha dimostrato la Borsa ieri, facendo salire a livelli stratosferici i valori dei titoli (Bper +11,35%, Bpm +12,70%, Banco Popolare +8,65%, Ubi Banca +8,87%, Popolare di Sondrio +5,86%, Credito Valtellinese +7,86%), le Popolari “riformate” saranno facili prede di chi vorrà comprarsele: altrimenti perché i loro titoli avrebbero dovuto salire? E qui spuntano fuori le multinazionali: colossi stranieri americani, inglesi, francesi e tedeschi, perché le grandi banche italiane, tolta forse Intesa Sanpaolo, non hanno la voglia o la forza di crescere ancora in Italia, due ex-grandi banche come Mps e Carige (a proposito: più o meno fallite eppure non Popolari!) devono ancora essere comprate da qualcuno e non trovano nessuno… ovvio che, ammesso che l’amatore delle Popolari si trovi, non possa che battere verosimilmente bandiera straniera.



Niente di male, dicono i liberisti: ben vengano le proprietà straniere se si comportano bene come il Credit Agricole in Cariparma. Ora, a parte che una rondine non fa primavera, non va dimenticato i guasti che altri passaggi stranieri nel credito italiano hanno lasciato, come il Santander nell’Antonveneta… E poi i tempi sono cambiati e richiedono prudenze nuove. Quali multinazionali creditizie avrebbero, o avranno, la stessa conoscenza e attenzione verso le peculiarità del tessuto imprenditoriale locale italiano? Domanda cruciale, perché – come giustamente ricordava ieri Stefano Fassina, già responsabile economico del Pd e viceministro all’Economia, oggi esponente di rilievo della minoranza anti-renziana nel partito – “le piccole e medie imprese e le famiglie italiane hanno trovato, negli ultimi anni di crisi, proprio nella banche popolari e nelle banche di credito cooperativo l’unico canale di approvvigionamento di credito ancora efficiente. E lo dimostrano i dati. Dal 2010 al 2013 gli impieghi verso le imprese e le famiglie italiane sono diminuiti in Italia di 52 miliardi, ma analizzando solo il comportamento delle banche cooperative e popolari sono aumentati di 6,3 miliardi. Per questo cancellarle sarebbe un grave danno al sistema all’economia reale, alle Pmi e alle famiglie, oltre a colpire uno dei pochissimi punti di democrazia economica che il nostro Paese conosce”.



Il tutto, aggravato dal paradosso che di questa riforma-blitz non si sentiva alcuna mancanza e non c’era alcuna prescrizione, la si poteva tranquillamente rinviare a una fase legislativa meno convulsa e cruciale; e comunque una cosa è riformare – cioè indurre, con norme, il settore delle Popolari a evolvere e razionalizzarsi – altro è cancellare un settore abolendo la clausola del voto capitario e quella del tetto dell’1% del capitale posseduto da un unico socio, che ne sanciscono e difendono la natura cooperativa proteggendole da qualsiasi scalata. Con l’ex presidente della Lega delle cooperative, Giuliano Poletti, oggi ministro renziano del Lavoro, che assiste tacendo e acconsentendo…

E poi perché tanta fretta? Quale emergenza Renzi si proponeva di gestire? Nessuna: e da tutti i quadranti dello schieramento politico nazionale (non solo dalla sinistra Pd) si stigmatizzava questa inutile e sospetta furia operativa. “Occorre che il governo proceda con grande prudenza e senza superficialità nella riforma del credito cooperativo. Qualche intervento nel campo delle grandi banche popolari può avere un senso”, diceva ad esempio ieri Lorenzo Dellai, presidente del gruppo parlamentare Per l’Italia-Centro Democratico alla Camera: “Costringere le piccole e medie banche cooperative a macro fusioni, imponendo soglie di patrimonializzazione irragionevoli, rischia invece di distruggere uno dei modelli di credito che nel nostro Paese ha avuto ed ha un ruolo importante nello sviluppo locale e nella tenuta del sistema sociale, indebolendo il legame con il territorio e con le componenti civili e sociali che lo animano”. 

Critiche anche dal Centro democratico dunque, come da Forza Italia, con Gasparri. Tanto che molti ieri sera si chiedevano a Montecitorio se si sia trattato del solito “ballon d’essai” dell’irrequieto presidentissimo o se la cosa andrà avanti. Sta di fatto che chi avesse saputo venerdì mattina dell’imminente fuga di notizie sul progetto governativo e avesse comprato titoli di banche popolari ai prezzi di quella mattina sarebbe oggi un uomo ricco: chissà se la Consob vorrà acquisire gli elenchi degli “utilizzatori finali”.

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